Parto anche io dall’articolo di Della Loggia, che purtroppo, lo anticipo, risponde al sentire di molti insegnanti di disciplina, i veri impreparati, da un punto di vista psicopedagogico ed umano ad includere ragazzi con difficoltà.
Della Loggia ha messo al centro del mirino i docenti di sostegno, che specializzati o no, si occupano a 360° dei ragazzi e non solo di ragazzi che presentano una diagnosi funzionale. Della Loggia mostra, come molti docenti di disciplina, di non avere alcuna idea di quale lavoro dietro le quinte svolge il docente di sostegno. Tuttavia, ha aperto un dibattito, che forse può aiutare a far venire al pettine i veri nodi della questione.
Vado per ordine.
Mi presento. Sono una docente di sostegno, per scelta, iperspecializzata.
Sono entrata nella scuola pubblica dopo aver conseguito il titolo di specializzazione all’insegnamento alle scuole superiori su materia presso la vecchie SISS, che dava l’accesso al successivo percorso delle attività aggiuntive per il sostegno di quattrocento ore, che ho naturalmente conseguito. Entrando nelle classi, però, mi sono resa conto che quanto appreso, studiato, messo in campo non era sufficiente per un approccio efficace per gli adolescenti che mi trovavo davanti, mancandomi pezzi di conoscenza sullo sviluppo emotivo e cognitivo che certo non inizia e si conclude con l’adolescenza. Perciò mi sono iscritta e ho conseguito la laurea in scienze della formazione primaria, con il conseguente titolo del sostegno anche per le scuole primarie. Poi mi sono appassionata al metodo Montessori e ho conseguito il titolo della didattica speciale montessoriana presso l’Opera Montessori di Roma.
Aggiungo altri master, di cui uno inerente l’intercultura, successivo al conseguimento della specializzazione per l’insegnamento della lingua italiana come L2 a bambini e studenti stranieri, che mi ha dato altri attrezzi non solo per i bambini e ragazzi stranieri. Chiudo con la notizia che sto conseguendo la laurea magistrale in Scienze pedagogiche e scienze dell’educazione degli adulti e della formazione continua ed un master in Counseling Complementare secondo l’approccio dell’Analisi Transazionale.
Penso che sia chiaro che credo nella formazione e nell’apprendimento lungo tutto l’arco di vita, soprattutto per chi svolge la professione e funzione di docente.
Svolgo da venti anni tale professione (che dovrebbe essere ridefinita, essendo una funzione di facilitatore e mediazione dell’apprendimento), di cui ben quattordici su sostegno. E posso dire che lungo tutto questo periodo è stato difficilissimo applicare i principi di una didattica inclusiva per il semplice fatto che molti docenti di disciplina sono privi dei fondamentali di psicopedagogia; non sentono la necessità di fare corsi di formazione ed aggiornamento; non fanno alcuna analisi dei bisogni degli studenti che hanno davanti, mettendo in atto la seguente triade: lezioni frontali, interrogazioni e valutazioni. Non prendono minimamente in considerazione quanto proviene dal docente di sostegno, che costituisce nella maggior parte dei casi un elemento di disturbo, che di fatto non viene considerato o apparentemente considerato. E così godiamo di minore considerazione.
Anche le case editrici ci trattano differentemente. A noi docenti di sostegno mettono a disposizione solo libri digitali e ci impediscono di accedere a tutte le risorse perché appunto siamo di sostegno, senza tenere conto che il docente spesso non è specializzato sulla disciplina su cui è chiamato a dare un supporto e che spesso si trova a semplificare – visto che nessun altro lo fa – con indicibili difficoltà.
E assicuro che la mia non è un’esperienza isolata.
Mi è capitato anche di entrare in altre classi e ritrovare addirittura il/la docente di sostegno vicino al ragazzo, ragazza con diagnosi, perpetrando il rito della scuola nella scuola. Senza parlare di scuole, in cui ho prestato sevizio, nella quali i ragazzi vengono portati fuori dalle classi e così si perpetra il rito delle scuole speciali nelle scuole normali.
Certo non si può nascondere che tanto per molti docenti di materie tanto per molti docenti di sostegno si tratta di una professione quella dell’ insegnante intrapresa senza consapevolezza e passione, garantendo indisturbati uno stipendio dignitoso, insomma un impiego per ripiego.
La condicio sine qua non perché si possa realizzare una scuola inclusiva è che:
1) Si metta in campo un reclutamento attento ed efficace dei docenti che deve essere conclusivo rispetto ad un percorso di formazione e tirocinio concreto e altamente formativo che deve essere comune a docenti di disciplina e di sostegno. Tutti i docenti devono essere specializzati sull’inclusione, perché le situazioni di disagio sono in aumento e non si possono relegare ai soli docenti di sostegno, che non possono agire da soli, come ora spesso accade.
Ho potuto osservare e sperimentare che quando a condurre la didattica è un docente specializzato nelle attività del sostegno, con comprovata esperienza di inclusione, la conduzione della lezione è molto soddisfacente per tutti.
2) Tutti i docenti, soprattutto di disciplina, svolgano una formazione continua, reale ed efficace, dovendo essere in grado di saper personalizzare i percorsi formativi, di conoscere ed applicare metodologie inclusive; di saper lavorare in team, affinché si sovverta la mentalità che porta i docenti a sostenere che:” il docente di italiano insegna italiano, che il docente di storia insegna storia e non sono psicologi o assistenti sociali…”; oppure: “di questi ragazzi ve ne occupate voi” o nell’organizzare attività non si tenga conto di situazioni di specificità.
3) Si smetta di creare ghetti. Scuole che accolgono centinaia di ragazzi certificati e stranieri o con BES conclamati. Occorre fare un controllo capillare costante su quanto avviene nelle scuole. Non si possono accettare classi in cui vi siano inseriti due o tre ragazzi con diagnosi funzionale, rischiando, diventando classi ghetto a tutti gli effetti.
4) Venga assimilato da parte dei docenti di disciplina, in particolare, che tutti gli apprendenti hanno Bisogni Educativi Specifici, apprendendo ciascuno in modo diverso, che devono conoscere. Non è l’apprendente che deve adattarsi al docente, cosa che invece viene richiesta. Siamo tutti diversi. Occorre fare un analisi dei bisogni degli apprendenti per approntare strategie efficaci, che tengano conto dei punti di forza e debolezza. Le lezioni frontali non rispondono a nessuna esigenza, se non di facilitare il compito al docente. Mette al centro il docente e non l’apprendente e il docente non impara nulla, mentre la più efficace metodologia è quella che permette uno scambio bidirezionale.
5) Siano svolte reali ed efficaci azioni di orientamento, che è fondamentale. Soprattutto per i genitori, che vanno accompagnati verso la dismissione della mentalità che i figli devono conseguire un diploma nell’ambito più richiesto a prescindere dalle aspirazioni dei loro figli a tutti i costi; che basta un pezzo di carta svuotato di ogni senso e significato. Bisogna che i genitori conoscano i propri figli e ne comprendano i reali bisogni, potenzialità e punti di debolezza. Li riconoscano come persone distinte da loro. Ciò accade davvero in casi rarissimi.
Proprio perchè credo nell’orientamento, ho assunto la funzione di tutor scolastico dell’orientamento. Anche su questa figura i docenti sono scettici, non capendo quanto il loro giudizio pesa su genitori e ragazzi. Mi è stato proprio detto: “i ragazzi non credono in questa figura”. Ed io a mia volta ho chiesto: “Quanto ci credono docenti e genitori? Quanto influenza il loro giudizio gli stessi ragazzi, da cui tuttavia ho una risposta positiva alle attività e dialogo messi in campo?”
6) La scuola non deve essere da sola ad affrontare situazioni critiche. In particolare, manca l’apporto delle ASL che non dovrebbero intervenire certo solo ai GLO. Continua a mancare la predisposizione di un Progetto di Vita, che dovrebbe stare a monte di ogni scelta di orientamento e di didattica. In vero di Progetto di Vita si dovrebbe parlare per ogni ragazzo/a, non solo con ragazzi/e con diagnosi funzionale.
Non mancano certo riferimenti normativi, anzi ce ne sono una quantità spropositata. Peccato che è molto discutibile la loro (NON) applicazione.
Mi ha così logorata tale situazione che ho deciso di auto-orientarmi verso altre professioni, con una profonda amarezza e delusione, poiché oltre che da docente vivo tale situazione di esclusione da genitore di un ragazzo che ha problematiche emotive-comportamentali. E neppure per mio figlio vedo una personalizzazione e differenziazione didattica, eppure frequenta una scuola professionale, scelta secondo criteri ben precisi, che dovrebbe saper mettere in campo più di altre una didattica inclusiva, costituendo per molti l’ultima spiaggia prima dell’abbandono scolastico.
E senza alcuna remora affermo che la prima a creare dispersione scolastica è la scuola stessa a cui è stato demandato il compito di procederne al contrasto, su cui esprimo, se non si fosse capito, molte perplessità.
Lo affermava già Don Milani: la scuola rischia di essere come un ospedale che manda via malati e cura i sani.
E quali strumenti la scuola sta mettendo in campo?
Basti fare un giro sui siti delle scuole superiori. Molte offrono in orario pomeridiano attività laboratoriali con didattica immersiva inerenti le discipline di studio dell’offerta formativa del stesso percorso di studi intrapreso. L’adesione a tali attività è su base volontaria, quindi molti e molte decidono di non trattenersi a scuola di pomeriggio, ritenendo una tortura già frequentarla al mattino. E perciò non sperimentano nessuna di queste attività laboratoriali. Perché tali strategie non vengono messe in campo durante l’ordinario orario scolastico, proponendo di pomeriggio attività di approfondimento per i ragazzi che mostrano maggiore interesse e motivazione? Magari nel tempo al pomeriggio, dopo l’esperienza laboratoriale ed immersiva sperimentata durante l’orario ordinario, le scuole si riempiranno di ragazzi interessati e motivati ad approfondire e credere nella formazione scolastica.
Miriam Polani
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