Categorie: Valutazioni

Incontro “Il PD ci ascolta”: il sistema nazionale di valutazione

Si parla con insistenza di valutazione dell’istruzione. Il rilancio del sistema scolastico italiano passa infatti, per forza di cose, per l’attivazione di un apparato valutativo organico ed equilibrato. E su questo siamo tutti d’accordo. L’attuale assetto normativo è stato introdotto lo scorso anno, con l’approvazione del D.P.R. 80 del 28 marzo 2013, che ha di fatto sancito i ruoli e le responsabilità della ‘triade’ Invalsi, Indire, corpo ispettivo. Tuttavia, a distanza di un anno chi effettivamente va valutato all’interno della scuola non è ancora chiaro. Nello stesso D.P.R. si indica il sistema come un processo introdotto per valutare “l’efficienza e l’efficacia del sistema educativo di istruzione e formazione”, si parla di “procedimento di valutazione delle istituzioni scolastiche”. Ma non si entra nel merito dell’oggetto da valutare.Ed è su questo punto che occorre fare chiarezza il prima possibile. È un punto imprescindibile, che è anche alla base della frenata che il sistema nazionale di valutazione ha riscontrato nell’ultimo periodo, come evidenziato nello studio nazionale pubblicato alcuni giorni fa dalla Fondazione Agnelli. A tal proposito, vorremmo subito dire che il grado di apprendimento degli alunni non ci sembra la strada migliore da percorrere. Perché sappiamo bene che ad incidere pesantemente sulla preparazione dei discenti sono le loro condizioni di partenza, il contesto socio-economico in cui vivono, il grado culturale delle famiglie cui appartengono, la validità o la carenza delle strutture culturali cui possono accedere. E, non per ultimo, le caratteristiche del gruppo dei pari. È evidente che, quindi, prima di valutare il docente occorrerebbe realizzare uno specifico approfondimento sulle caratteristiche degli alunni a cui sono rivolte le lezioni: sulle loro potenzialità di base, sulle loro difficoltà oggettive, sul loro grado di miglioramento potenziale. E per misurare questi parametri, peraltro mutabili di anno in anno, servirebbero indicatori raffinati. Che prima di essere adottati su larga scala andrebbero sperimentati e plasmati.

Allo stesso modo, riteniamo che non può essere percorribile nemmeno la strada che porta alla valutazione dei singoli insegnanti: sono tantissime le variabili che vanno ad incidere sulla qualità della didattica. Il cui esito non sempre è legato alla bravura, all’impegno, al grado di competenza e di aggiornamento di chi sta dietro la cattedra. Basti pensare ai carichi di lavoro: se un docente ha 15 o 30 alunni in classe è sicuramente chiamato a svolgere un impegno diverso. Se un docente insegna materie teoriche che necessitano della somministrazione di continue verifiche scritte avrà maggiori impegni rispetto ad insegnante di laboratorio o di educazione fisica. Ma sono considerazioni generali, che non possono essere standardizzate. Anche una classe con pochi alunni, ma particolarmente difficili e disomogenei, può comportare un impegno gravoso: far realizzare attività motoria o esercitazioni pratiche a ragazzi ostili alla pratica può essere un’impresa ardua, che necessità fatica, professionalità e impegno massimo. E allora?

Allora, secondo noi la valutazione non può essere attuata sul singolo insegnante. Il fatto stesso che tale ipotesi è fortemente osteggiata dai diretti interessati non può essere solo interpretato come un rifiuto ad oltranza a misurarsi o a mettersi in discussione. È evidente che l’unico modo per imporre un sistema di valutazione valido è allora quello di approfondire le perfomance di ogni scuola. Andando a verificare gli esiti complessivi di ogni istituto: focalizzando l’attenzione sull’organizzazione e sul “clima” scolastico, sui processi di integrazione di disabili e immigrati, sulla bontà della progettazione didattica e del POF, sulla valutazione degli studenti e sui progetti di recupero.

Sempre tenendo in debita considerazione i parametri esterni del contesto, derivanti in primis dalla collocazione territoriale della sede scolastica. Tanto per intenderci, un istituto dello Zen di Palermo avrà una collocazione di difficoltà tripla rispetto ad una scuola dello stesso ciclo collocata nel centro di Torino o di Milano. Non è un dettaglio. Anzi.

Detto questo, resta da capire chi dovrà essere incaricato di redigere la valutazione degli istituti. Diciamo subito che non può essere nemmeno presa in considerazione l’ipotesi di affidare questo delicato ruolo ai dirigenti scolastici (per ovvi motivi di discrezionalità e imparzialità in cui potrebbero cadere). Come non può essere presa in considerazione la proposta che vorrebbe gli insegnanti valutati dagli studenti: allora perché non facciamo giudicare l’operato dei magistrati o delle forze dell’ordine agli indagati? Oppure perché non misuriamo la bravura di un medico attraverso il parere dei suoi pazienti?

E’ evidente che occorrerà puntare su un ‘agente’ esterno. E in quest’ottica, possono risultare utili gli esiti derivante dalla sperimentazione Vales promossa dall’Invalsi, che affida un ruolo centrale all’autovalutazione e, soprattutto, alla valutazione esterna. Incaricando quindi enti specializzati. Come l’Invalsi? Anche. Ma non certo con la struttura sottodimensionata e scarsamente finanziata quale è oggi: come si fanno a valutare 8.400 istituti avendo a disposizione 15 milioni di euro l’anno?

Servirebbe un maggior grado di indipendenza. E soprattutto servono degli ispettori. I quali potrebbero coordinare interventi ‘in loco’, nelle scuole. Toccando con mano le realtà e le difficoltà che devono incontrare i docenti. Ed evidenziando, così, i punti di forza e di debolezza di ogni istituto.

Ma dove sono gli ispettori? Al Miur sono diventati ‘merce rara’. Mentre dei 57 dirigenti tecnici, vincitori dell’ultimo concorso, che più di sei mesi fa il decreto “La scuola riparte” aveva indicato come asse centrale per il rilancio del sistema di valutazione, si sono perse le tracce.

In assenza quindi di certezze sulla qualità della valutazione e di un corpo ispettivo all’altezza della situazione, non è possibile nemmeno immaginare di associare gli esiti della valutazione con le progressioni di carriera dei docenti.

C’è poi un ultimo equivoco da cui uscire: quello dei test Invalsi. Perché bisogna capire una volta per tutte qual è la loro mission: se, come continua a sostenere l’amministrazione scolastica, non servono per valutare gli alunni, perché allora sono diventati una prova dell’esame di terza media, tanto è vero che fanno media per il conseguimento del voto finale?

A chi ritiene invece necessario andare a verificare al qualità della didattica rispondiamo che l’unica modalità possibile è quella di istituire un monitoraggio biennale o triennale. Ma a posteriori, dopo la maturità. Non, quindi, attraverso verifiche immediate o in itinere, ma introducendo un’analisi dei risultati ottenuti dagli studenti dopo il diploma di secondo grado. La spendibilità di un diploma, la capacità del ragazzo di trasformarla in un passaggio che porta alla laurea o a un impiego qualificato può diventare la cartina di Tornasole per misurarne la validità. Perché l’operato di una scuola è una variabile fondamentale per il successo/insuccesso dei giovani: da valutare andando a sondare l’efficacia della sua azione sulla lunga distanza.

Redazione

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