Da un breve sondaggio con degli studenti di alcune classi seconde e terze di un liceo è emerso un quadro significativo dei motivi principali per i quali la scuola ha perso molto della propria valenza formativa ai fini dell’inserimento dei nostri ragazzi nella realtà lavorativa e culturale della nostra società. Le domande proposte erano le seguenti:
Non si tratta di molte domande ma le risposte sono state molto diversificate. A fianco di una buona maggioranza di intervistati che dichiaravano sani principi per la costruzione del proprio futuro basata sul costante impegno scolastico, una percentuale non esigua manifestava invece tendenze più possibiliste ed esplorative nel modo di affrontare la vita in generale.
A parte le numerose attività extra scolastiche svolte nel tempo libero è emersa un’interessante visione ludica dell’impegno che vede di buon occhio, per una consistente percentuale degli intervistati, l’attività di influencer come anche quella di fare investimenti sulle piattaforme di trading.
Si tratterebbe, secondo gli intervistati, di un modo diverso di impegnarsi ma pur sempre di impegno e capacità. Ciò che conterebbe è la stabilità economica che verrebbe così conseguita senza bisogno di studiare che, di fatto, richiede fatica e non garantisce un guadagno alto, anzi, a volte, troppo misero, da sfigati.
Anche diventare un bravo calciatore attira tantissimo come attività professionale perché permette di diventare ricchi e famosi e, anche se devi allenarti costantemente, però non devi studiare. Il motivo per cui bisogna andare necessariamente a scuola è poi la necessità di avere un diploma, indispensabile per accedere al mondo del lavoro. Il diploma serve a prescindere dalla formazione culturale che quel diploma dovrebbe dare. La buona qualità di quest’ultima non viene ritenuta indispensabile.
Le idee sembrano quindi essere chiare, e precisi gli obiettivi. La scuola superiore, se non fosse per il ruolo indispensabile mantenuto dal diploma, visto come “patente” di guida per la circolazione nel mondo del lavoro, a filarsela resterebbero in pochi. Se esistesse poi una piattaforma ministeriale “dispensatrice” di diplomi a seguito del superamento di un test per lo scritto ed un colloquio successivo per l’orale si semplificherebbe enormemente tutta la “trafila” di questo importante percorso formativo, con una enorme riduzione della spesa pubblica perché verrebbe fortemente ridotto il personale e le strutture scolastiche da gestire.
Chissà magari un esamino per ogni anno scolastico (seri però! Un po’ come quelli integrativi per la passerella da una scuola ad un’altra, o come quelli fatti al rientro dai progetti intercultura per il reinserimento in classe degli alunni partecipanti) e poi alla fine il tanto agognato diploma! Tanto, sarà poi il mondo del lavoro a selezionare i soggetti richiesti, secondo le abilità e conoscenze dagli stessi possedute. Del resto, quale altro valore può avere, per certa categoria d’utenza, il frequentare un corso di studi quinquennale? Ce ne sarebbero e ce ne sono tanti in realtà ed importantissimi che non necessita nemmeno ricordare. L’ipotesi è ovviamente provocatoria e volta, in verità, a riaffermare la straordinaria importanza della crescita formativa dello studente nell’ambito della comunità scolastica.
Ciò nonostante, non sempre gli insegnanti dimostrano forza e motivazione nel far passare un messaggio diverso che possa riconfermare l’enorme importanza della formazione fatta a scuola che non è, come sappiamo, solo culturale. Peraltro, non possono neanche essere criticati più di tanto visto che le normative vigenti indicano chiaramente che la carenza di bisogni formativi, apertamente manifestata da buona parte dei nostri studenti, deve essere colmata con l’utilizzo di nuove strategie e tecniche d’insegnamento creando un clima di inclusività che crei, nel discente, le condizioni per stimolare la sua curiosità innescando la voglia di conoscere ed apprendere.
Numerose le nuove metodologie didattiche suggerite (interdisciplinarità, circle time, role playing, cooperative learning, peer education, flipped classroom, didattica laboratoriale). Tutte utili per stimolare, almeno per le prime volte, una certa curiosità negli studenti ma anche impegnative per loro, più della lezione frontale.
Ma se è proprio la predisposizione all’impegno che manca, che ne è di tutte queste tecniche? Che ne è della didattica? Diventa difficile motivare diversamente chi è già motivato di suo allo scarso impegno, perché magari non teme conseguenze.
La domanda che a questo punto bisogna porsi è se gli insegnanti debbano preoccuparsi o meno di far spuntare il bisogno formativo nei loro svogliati alunni e quali altri mezzi debbano eventualmente utilizzare oltre quelli che già utilizzano? Non credo, comunque, possa esistere una tecnica d’insegnamento ideale che permetta agli insegnanti di risolvere simili problemi.
La premialità non giustificata da un corrispettivo impegno non sembra abbia dato i risultati sperati e la disaffezione dalla scuola è sempre più in crescita.
Giuseppe D’Angelo
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