Iniziamo un nuovo anno scolastico e con esso le canoniche riunioni. Si cincischia su obiettivi e competenze utopiche per ragazzi e ragazze che per due anni sono stati schiacciati/e dalla pandemia, rafforzando in loro la demotivazione allo studio che già, in precedenza, attanagliava buona parte della scuola italiana.
Incontri non sempre produttivi, perché obliano i principali protagonisti: studentesse e studenti.
Capita che, come un atavico rituale, si ripropongano sempre le stesse programmazioni e le stesse tematiche, cambiando qualche aggettivo o qualche verbo, che automaticamente l’anno successivo ritornerà nuovamente al suo posto.
La sperimentazione fa paura oppure, per impedirla, si cercano cavilli burocratici inesistenti.
È più semplice stare in classe, aprire il libro e credersi il deus ex machina.
La motivazione allo studio, nella pratica quotidiana, resta lettera morta, benché sia stata infarcita di tante bellissime e ridondanti parole.
Poco si fa per attivare l’attenzione e la concentrazione, prerequisiti che si danno per scontati perché, forse, considerati innati.
Si dimentica con troppa facilità delle lacune di base dei tanti studenti che provengono da ambienti poco stimolanti e/o da paesi dove l’unico luogo di socializzazione è il “tocco di birra” al bar. Da loro, ad esempio, si pretende che alla fine del primo biennio abbiano la competenza di saper padroneggiare la lingua italiana in forma orale e scritta, con chiarezza e proprietà a seconda dei diversi contesti e scopi; inoltre che sappiano riflettere sugli aspetti metalinguistici del codice comunicativo.
Ad ogni inizio d’anno scolastico sembra, però, che noi docenti viviamo, una “amnesia ottimistica”, scordandoci degli studenti che arrivano in prima superiore senza saper quasi né leggere né scrivere. Non sanno usare la penna e la loro grafia è alquanto galenica. Teneramente ed amabilmente, parlano quel loro familiare dialetto italianizzato e non solo per quanto riguarda i verbi intransitivi, usati come transitivi anche da alcuni insegnanti.
Le/i docenti devono essere messi nelle condizioni di elaborare una “Nuova didattica”, che parta dal coinvolgimento emotivo-relazionale, con percorsi di pedagogia attiva, come quelli tracciati da Dewey, Freire,Tagore, Don Milani…; chiavi di volta per la formazione di una cittadinanza democratica e partecipativa.
Insomma al centro dello sviluppo culturale c’è bisogno di una didattica della trasformazione.
Teatro, musica, yoga…, possono essere utili e determinanti non solo per un’introspezione del proprio sé ed il recupero dell’autostima, ma rispondono anche alle esigenze degli studenti, in quanto rompono barriere mentali ed aprono orizzonti di conoscenza prima sconosciuti.
Un laboratorio creativo, ad esempio, si rivela un’ottima strategia didattica per avvicinare i giovani al mondo della cultura, sviluppando in loro un sentire empatico che esorcizza collettivamente la paura e la solitudine del mondo contemporaneo.
Le abilità di base, come la concentrazione e l’ascolto, vanno recuperate attraverso interventi educativi mirati:
• a livello cognitivo → testa;
• a livello emozionale → cuore;
• a livello attivo → piedi.
I/le docenti necessitano di corsi di formazione operativi e non l’ascolto passivo di relatori/parolai. Inoltre, hanno bisogno di un riscatto sociale. Dovrebbero essere incentivati, soprattutto, dal punto di vista stipendiale.
Una/un insegnante che vive in ristrettezze economiche è un essere infelice e l’infelicità non potrà mai stabilire un positivo connubio con una scuola che, sempre più, sopravvive nel migliore dei casi sul volontariato, nel peggiore sullo sfruttamento delle sue lavoratrici e dei suoi lavoratori precari.
Si rammenta che l’insegnante è la professione più importante della società perché, come affermava Albert Einstein, “risveglia la gioia della creatività e della conoscenza” e prepara a tutti gli altri lavori della vita.
Professoressa Mariangela Gallo
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