Sta riscuotendo un certo interesse in rete l’ ”Appello per la difesa e il rilancio delle discipline, della professione insegnante e del futuro dei giovani” promosso dalla associazione Manifesto dei 500 sottoscritto già da alcune centinaia di docenti di ogni ordine di scuola, oltre che da non diversi docenti universitari.
Il “cuore” dell’appello riguarda la necessità – dicono i firmatari – di impedire il superamento della “rigida divisione disciplinare” più volte annunciata dal ministro Bianchi.
In proposito il Manifesto dei 500 richiama un documento firmato da Bianchi quando ancora era consulente della ministra Lucia Azzolina: “Occorre abbandonare una visione enciclopedica delle discipline di studio e inoltrarsi verso un curricolo essenziale”.
“Non si può dire che l’attuale ministro inventi qualcosa – si legge nel documento – poiché dalla fine degli anni ’90 tutti i documenti delle ‘riforme’ hanno preconizzato una riduzione delle conoscenze e persino uno spostamento ai primi anni di università della preparazione della scuola secondaria di secondo grado, con evidenti ricadute sugli ordini precedenti di scuola”.
Gli estensori dell’appello polemizzano anche sul fatto che sempre più spesso si utilizzano espressioni nuove e del tutto inadeguate per definire i docenti: si va da “veicolatore” a “tutor”, da “facilitatore” a “operatore didattico”, fino ad arrivare a “differenziale di sviluppo”.
E aggiungono: “La stessa espressione ‘trasmettere conoscenze’, che in sé rappresenta da sempre un valore per la società, è stata demonizzata e bandita. Immancabilmente, questi indirizzi sono stati accompagnati da pompose dichiarazioni e oggi il superamento delle discipline viene dal Ministro giustificato con il ‘dare ai ragazzi e alle ragazze il senso di unitarietà del sapere che è uno dei limiti della suddivisione delle discipline in compartimenti stagni’ ”.
Ma, secondo il Manifesto, è meglio stare ai fatti: “Da venticinque anni assistiamo ad un progressivo abbassamento del livello dei curricoli e delle conoscenze trasmesse ai giovani a fianco di una lenta, ma costante, rimessa in causa della figura dell’insegnante, sia dal punto di vista del riconoscimento sociale, sia da quello dell’essenza del suo mestiere, della sua professione, spinta sempre di più verso un mix di animatore, assistente sociale o psicologico, elaboratore di progetti a sfondo genericamente educativo, mentre la burocrazia prende un posto crescente e invadente, tendendo a soffocare il libero rapporto fondato sulla cultura che dovrebbe caratterizzare la relazione docente-allievi. A fronte di Indicazioni Nazionali ricche di espressioni altisonanti, dalla scuola dell’infanzia fino alla secondaria di secondo grado si assiste ad uno svuotamento di contenuti rispetto ai precedenti Programmi Nazionali”.
Senza trascurare altri argomenti classici “dal ritardo con il quale si insegna a leggere e scrivere alla rinuncia sempre più diffusa al corsivo, dalla rimessa in causa della capacità di elaborare veri temi a quella dell’insegnamento della storia, dall’ignoranza dilagante della geografia alla riduzione delle scienze ad esperienze episodiche”.
E’ ormai “sempre più chiaro – concludono – come la presunta ‘unitarietà del sapere’ mascheri in realtà la tendenza a cancellare un percorso organico, metodico, graduale, in grado di fornire veramente alle nuove generazioni gli strumenti per stabilire un libero rapporto con la cultura”.
L’alternativa è una sola: “Noi denunciamo questa deriva e difendiamo la ‘scuola’, fondata sulle discipline e sul loro insegnamento metodico, essenza della professione insegnante, libera e indipendente. Lo facciamo perché siamo legati alla cultura, alla nostra professione, ma anche al futuro dei ragazzi e dell’intera società”.
Osservazioni certamente interessanti e che meritano un sereno confronto senza però trascurare alcuni dati del tutto scontati per chi conosca – anche solo per sommi capi – la pedagogia degli ultimi 70 anni: il mestiere del docente ha poco a che fare con la “trasmissione” delle conoscenze che, invece, hanno bisogno di essere “costruite” dall’alunno. Fare scuola significa soprattutto creare adeguati tempi e spazi che aiutino ciascun alunno nel proprio percorso di crescita. Su questo aspetto, cognitivismo e costruttivismo hanno fornito un contributo importante alla pratica pedagogica. Non a caso i programmi della scuola elementare del 1985 si ispirano proprio a quelle teorie.
Se poi vogliamo andare un po’ più a fondo non possiamo dimenticare che il compito del docente non è tanto quello di “insegnare” quanto piuttosto quello di “far apprendere”; e, per fare in modo che l’alunno impari, è necessario partire dalla sua dalle sue motivazioni e dai suoi bisogni, come è stato evidenziato dalle migliori esperienze della scuola attiva, da Dewey fino a Freinet e ai “nostri” Mario Lodi e Bruno Ciari.
Ad ogni modo il Manifesto dei 500 è già al lavoro per organizzare per il prossimo settembre una “Conferenza nazionale per la difesa e il rilancio delle discipline, della professione insegnante e del futuro dei giovani”.