Pare che l’insegnate severo ottenga migliori risultati, mediamente del 20% in più, rispetto a quello più generoso, e siccome la generosità per lo più appartiene alle femmine, qualcuno sibila che la causa della depressione educativa e culturale dei nostri ragazzi sia dovuta alla presenza ormai massiccia di insegnanti donne, inclini più al mammismo e alla indulgenza piuttosto che al rigore, quello che appunto farebbe scattare i migliori risultati.
Una tesi alla quale si unisce quell’altra, secondo cui per migliorare il rendimento dei ragazzi bisogna attuare processi di valutazione sul merito e sulle competenze dei professori; e un’altra ancora, secondo la quale bisogna attuare parametri di giudizio sulle competenze e i saperi dei ragazzi più rigidi e soprattutto più uniformi, visto che alcuni premiano le eccellenze, altri la mediocrità, anche per evitare penosi abbandoni, e altri ancora allargano la gamma dei voti, cosicché le insufficienze risultano poche, livellando la classe e impedendo lo stimolo a fare meglio.
D’altra parte se per un verso gli alunni percorrono vie nuove e di indirizzo tecnologico, le strategie didattiche sono di poco modificate rispetto al “molto più antico”, mentre poche risposte di qualità sono state date alle quantità di utenza e alla richiesta di istruzione che non è solo la conquista di una qualità della vita migliore ma è anche una maggiore corrispondenza qualitativa alle domande del mondo del lavoro. In altre parole c’è una sorta di dicotomia tra le richieste della società, che pretende competenze e alti standard di vita attraverso modelli in continua evoluzione, e la scuola che, massificandosi, non riesce a dare basi culturali adeguate alle richieste, sia delle famiglie, e sia delle industrie in perenne competizione fra loro.
L’aumento dunque della quantità di alunni richiederebbe misure educative ad essa adeguate, ma che aspetterebbe alla politica di attuare.
Infatti l’istituzione scolastica, come dice un recente studio, si basa su due pilastri essenziali: la selezione del personale e l’incentivazione. “Così come sono attualmente strutturati i due pilastri, potrebbero funzionare solo se gli insegnanti fossero tutti santi, missionari e dotati naturalmente di caratteristiche perfette e inossidabili per fare il loro lavoro.”
Dal punto di vista della selezione infatti, sono state più le sanatorie che i concorsi a permettere la conquista delle cattedre, e sempre per colpa dello Stato, apprendista stregone, che prima ha evocato il fenomeno dei precari e poi non l’ha più saputo contenere.
E non solo, ma gli stessi concorsi spessissimo esaminano le carte, per evitare ricorsi, invece delle competenze effettive, oltre ad ammiccare alle inevitabili raccomandazioni. E non solo ancora. Nei programmi concorsuali e nei corsi di abilitazione poco è richiesto in termini di didattica, di psicologia dell’età evolutiva, di pedagogia, di normativa e di legislazione, materie che fra l’altro sono assenti perfino da tanti corsi di laurea che però consentono l’insegnamento.
Per quanto riguarda invece la incentivazione del personale, coloro che individuano nella scuola il luogo di imboscamento di gente che a fronte di un magro stipendio svolge poco lavoro hanno buon gioco e facili ascolti, visti fra l’altro i risultati impietosamente diffusi dalle rilevazioni degli organismi internazioni sulle competenze dei nostri alunni. Perché alla fine tutto si riduce a tale equazione quando non c’è differenziazione né sull’impegno, né sulle capacità, né sul ruolo stesso tra i docenti.
La soluzione? Non la conosciamo, né mai l’abbiamo incontrata coralmente accettata.
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