Una contraddizione evidente visto che a scuola furoreggiano gessetti e lavagne, libri e quaderni, mentre a casa smartphone e Ipad, Pc e tablet. Qualcuno giustamente sottolinea che a scuola nessuno insegna il linguaggio dei computer, quello che già usano oggi quasi tutti i ragazzi, a scuola nessuno spiega il page rank di Google, i network, come usare WordPress, Photoshop, Pubcoder .
“E questo oggi è un problema, e non è tecnofilia, è pragmatismo: non ce la faremo, seppur genitori consapevoli, da soli a colmare vuoti così giganteschi; e rischiamo di allevare una generazione di autodidatti, di improvvisatori, che, fatte salve poche virtuose eccezioni, finirà con l’essere emarginata in un mondo che guarda al futuro con occhio almeno contemporaneo”, scrive a Wired un padre “tecnologico”.
“Non voglio le Lim, voglio i contenuti; ieri il fondatore di Twitter e il leader dell’Iran si sono scambiati due messaggi, il mondo cambia anche se difendiamo il sogno dell’ educazione idillica, tra una cetra ed un sonetto declamato sul lucente fiume.”
Si fa un gran parlare di innovazione, di imprenditorialità, di startup: e allora tocca raccontare ai bambini di terza elementare come è fatto il computer o il telefono del papà, che cos’è un social network, come funzionano le cose, che cosa significano. Serve superare il tabù, e smetterla di celebrare la stessa vecchia funzione in latino”.
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