Negli anni dal 2002 al 2010, una docente aveva presentato domanda all’Ufficio Scolastico Regionale per la Liguria, per l’iscrizione alla graduatoria provinciale permanente per l’insegnamento nella scuola d’infanzia, dichiarando contestualmente di essere in possesso dell’abilitazione a tale insegnamento. In conseguenza di questo, la docente aveva ricevuto incarichi annuali di insegnamento, praticamente ininterrotti, dal settembre 2002 al febbraio 2011.
A seguito di un controllo, l’Ufficio Scolastico Regionale aveva però accertato che la docente era priva di valido titolo di abilitazione per l’accesso alla graduatoria; il fatto era poi stato segnalato alla Procura della Repubblica.
In sede penale la donna era stata condanna del Tribunale di La Spezia per truffa ai danni dello Stato.
La Procura Regionale della Corte dei Conti per la Liguria ha contestato alla supplente un danno erariale di più di 150 mila euro, più con interessi legali e rivalutazione monetaria, nonché condanna alle spese, come conseguenza del comportamento fraudolento della convenuta che, occultando dolosamente la mancanza di un requisito indispensabile per accedere agli incarichi di insegnamento, ha percepito le retribuzioni erogate per prestazioni lavorative svolte senza titolo.
Con sentenza n. 7/2020 la sezione regionale della Liguria ha ritenuto di valutare l’utilità conseguita dall’amministrazione condividendo l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale “ricade sul Giudice contabile un vero obbligo, ai sensi della vigente normativa, di tener conto dei vantaggi conseguiti dall’Amministrazione onde escludere che possa verificarsi un ingiustificato arricchimento della stessa”.
Nel caso esaminato dalla Corte ricorrono infatti tutti i criteri in base ai quali deve trovare applicazione il principio della compensatio lucri cum damno: “l’effettività della utilitas conseguita, lo stesso fatto generatore del danno e del vantaggio, l’appropriazione dei risultati da parte della PA o della comunità amministrata, la rispondenza dell’utilitas ai fini istituzionali dell’Amministrazione che la riceve”.
Dalla documentazione versata in atti non risultano contestazioni o provvedimenti relativi a insufficiente qualità delle prestazioni professionali rese dalla convenuta, pur dovendosi presumere che “tali prestazioni debbano essere state inferiori a quelle che avrebbe fornito una insegnante abilitata”.
In via equitativa, pertanto, la Corte ha valutato l’utilità conseguita nella misura di un terzo della retribuzione illecitamente percepita dalla convenuta, e si è pronunciata per la condanna della stessa al pagamento, in favore del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, di più di 100 mila euro (pari a due terzi di quanto contestatole).
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