Nell’autorevole portale Lavoce.info interviene Giuseppe Russo, docente associato presso l’Università di Salerno, sul tema delle politiche di integrazione dei giovani stranieri.
Rifacendosi a studi internazionali ormai consolidati, Russo sottolinea che, per gli immigrati, la padronanza della lingua del paese di arrivo è assolutamente fondamentale ed è particolarmente rilevante per i bambini della scuola primaria, per i quali l’italiano è una lingua veicolare, necessaria per seguire le lezioni e capire tutte le altre materie.
Ma ci sono ricerche che, apparentemente, sembrano smentire questa “regola”.
Per esempio, un recente studio condotto dallo stesso Russo e da Mariagrazia Cavallo ha preso in considerazione i dati dei test Invalsi con l’obiettivo di stimare l’effetto della padronanza dell’italiano sull’apprendimento della matematica.
Sorprendentemente, l’effetto stimato è risultato negativo: cioè, i bambini che parlano meglio italiano hanno risultati peggiori in matematica.
Russo e Cavallo sostengono che la linguistica stessa può suggerire una possibile soluzione: i benefici della padronanza di una lingua tendono a manifestarsi solo dopo il superamento di una soglia di sufficienza. In altri termini, se la sufficienza è 6, passare da 3 a 4 non dà benefici apprezzabili.
D’altronde è proprio questa è la ratio sottostante i criteri di ammissione per stranieri nelle scuole e università di tutto il mondo: si richiede l’attestazione di un livello minimo di conoscenza linguistica (ad esempio, B2), considerato necessario per accedere al curriculum.
L’analisi – spiegano ancora i due ricercatori – è stata ripetuta separando i bambini con un’insufficiente conoscenza dell’italiano da quelli con conoscenza almeno sufficiente. È emerso che sono proprio i primi a produrre il risultato inatteso. La conclusione è che questi bambini, all’età di dieci anni, non padroneggiano l’italiano abbastanza da seguire agevolmente le lezioni di matematica e sono quindi costretti a trascurarla per migliorare in italiano (e viceversa).
Questi risultati ribadiscono l’importanza di un’adeguata formazione linguistica in età infantile. Soprattutto, indicano che investimenti marginali darebbero risultati deludenti: per sostenere davvero l’integrazione, tutti i bambini devono raggiungere la sufficienza; nella misura in cui se ne allontanano, gli investimenti al margine sono inutili.
La conclusione a cui arriva Giuseppe Russo è assolutamente allarmante: “L’integrazione linguistica richiede investimenti massicci e precoci, investimenti che danno ritorni sociali apprezzabili – giorno più, giorno meno – in una ventina d’anni”. La domanda finale che si pone lo studioso la dice lunga sulla estrema difficoltà di assumere adeguate iniziative in tale direzione: “Esiste qualcuno in Italia disposto a sostenere interventi del genere?”
Esattamente il contrario di quanto la politica spera: produrre una vera e propria inversione di rotta nel giro di pochissimo tempo con investimenti modesti.
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