Il Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara ha annunciato nei giorni scorsi l’avvio di una sperimentazione della durata di due anni che coinvolgerà quindici classi di quattro regioni italiane (Lombardia, Toscana, Lazio e Calabria) sull’intelligenza artificiale: avrà come focus l’affiancamento di un assistente virtuale (IA) alle attività di insegnamento.
Il progetto mira a personalizzare la didattica e a migliorare il livello di istruzione di ogni studente: l’assistente virtuale, con la supervisione dei docenti, rivestirà un’importanza significativa nel differenziare i percorsi di apprendimento di ogni allievo, proponendo le esperienze più adatte e adeguate ai ritmi di apprendimento e alle caratteristiche di ognuno.
Ne parliamo con Mario Maviglia, già dirigente tecnico e provveditore degli studi di Brescia ma anche docente a contratto di Metodi e Strumenti per la Sperimentazione Educativa, Università Cattolica di Brescia.
Allora, Maviglia, il Ministro parla di sperimentazione. Siamo certi che sia l’espressione migliore per descrivere il progetto?
Tecnicamente, una sperimentazione consiste nell’introduzione, in un determinato contesto, di variazioni controllate di un fattore (variabile dipendente) per studiare gli effetti su un altro fattore (variabile indipendente), neutralizzando gli effetti secondari di altri fattori.
La variabile dipendente rappresenta quindi l’oggetto sul quale si rilevano e si misurano sperimentalmente gli effetti delle variazioni provocate dalla variabile indipendente. Pertanto i cambiamenti di questa variabile dipendono dalle manipolazioni che sperimentalmente vengono operate sulla variabile indipendente.
Per esemplificare: volendo studiare l’effetto degli strumenti dell’IA nella didattica possiamo introdurre questi strumenti in un certo numero di classi e vedere se l’apprendimento degli studenti migliora in modo significativo rispetto a classi “tradizionali”. E’ così?
In teoria sì, ma la questione è molto più complicata, perché una vera sperimentazione è possibile solo in una situazione fortemente controllata (es. in un laboratorio) in cui si possano effettivamente studiare le relazioni tra le due variabili principali e annullare l’effetto delle altre. In campo scolastico la realizzazione di una sperimentazione è estremamente difficile proprio perché non è possibile avere un controllo adeguato di tutte le variabili in gioco.
Se capisco bene, in campo scolastico non si può parlare di sperimentazione in senso stretto.
Esattamente, diversi autori, infatti, affermano che in campo scolastico sia preferibile parlare di esperienze controllate, più che di sperimentazione, ossia di un sapere che “riflette, organizza in modi peculiari, funge da selettore si azioni e intenti formativi”.
Ha senso parlare di sperimentazione se le classi coinvolte sono una quindicina in tutto?
Questo è un altro nodo.
Per quanto se ne sa, il progetto riguarda le classi seconde di scuola secondaria di primo grado e le classi prime e quarte delle scuole secondarie di secondo grado. A conti fatti il “campione sperimentale” sarebbe formato all’incirca dallo 0,05% del totale delle classi funzionanti.
Però anche quando si fanno indagini sul comportamento elettorale dei cittadini, si usano campioni molto piccoli, eppure i risultati spesso sono attendibili.
E’ vero, ma in ogni indagine ci si deve sempre porre il problema della rappresentatività del campione rispetto alla popolazione considerata. Detto in altre parole, e sempre in senso tecnico, il numero di scuole prescelte (campione) dovrebbe rappresentare adeguatamente la popolazione [di riferimento], nel senso che l’informazione ottenuta esaminando [il campione] dovrebbe possedere lo stesso grado di accuratezza di quella che avremmo ottenuto esaminando l’intera popolazione.
Altrimenti, se la dimensione del campione non è adeguata, osserva Bailey, “il ricercatore ha un campione, ma un campione di che cosa?”
Nel progetto di Valditara come viene affrontato questo problema?
Per quanto ne sappiamo, il progetto “sperimentale” del Ministro Valditara presenta proprio questa pecca, o meglio non è dato sapere quanto le 15 classi siano rappresentative delle classi italiane e se il principio di rappresentatività non viene soddisfatto viene meno anche la possibilità di generalizzare i risultati, ossia di estenderli a tutta la popolazione di riferimento.
I medesimi problemi riguardano la scelta del gruppo di controllo, ossia il gruppo che presenta le medesime caratteristiche del gruppo sperimentale ma che non viene sottoposto a sperimentazione e che funziona da termine di confronto rispetto al gruppo sperimentale: con quale criterio viene individuato?
Supponiamo che si riesca ad avere campioni rappresentativi di classi sperimentali e di classi di controllo, come potremmo essere sicuri che i livelli di apprendimento possano essere ascritti davvero all’IA?
E’ il problema di ogni indagine in ambito pedagogico. Non è un caso che nel campo della letteratura scientifica si affermi esplicitamente che “non è facile condurre bene una ricerca sperimentale”. Dubbi, questi, che non sembrano sfiorare il Ministro.
In conclusione, le sembra “normale” che si parli di sperimentazione?
Francamente mi sconcerta la disinvoltura con cui vengono utilizzati termini (come sperimentazione) che nel campo della ricerca educativa, e non solo, rimandano a protocolli e procedure rigorosi e fortemente controllati.
Quindi non siamo di fronte ad una ricerca che di scientifico ha molto poco?
Mi sembra che l’impostazione del progetto sia più ideologica che tecnico-scientifica.
Con la conseguenza che questa “sperimentazione” porterà sicuramente – da qui a due anni – a risultati inconfutabilmente positivi e tali da giustificare l’introduzione generalizzata dell’IA in tutte le classi.
Ma se questo è l’obiettivo finale (e non può che essere questo data l’assenza di ogni traccia di disegno sperimentale) tanto vale introdurre da subito l’IA nelle classi in quanto scelta politica (come di fatto sembra essere), senza nascondersi dietro improbabili paraventi “sperimentali”.