Con tutti i suoi limiti, insufficienze e manchevolezze, il modello formativo italiano non è poi da buttar via. Con buona pace dei finlandesi, dei coreani e di quanti si piazzano abitualmente nei primi posti nelle classifiche internazionali, i laureati italiani che ogni anno decidono di trasferirsi a lavorare all’estero sono stimati e sono molto apprezzati i loro livelli di competenze e la loro complessiva preparazione accademica. Segno che, a monte, anche le superiori hanno funzionato e giù a cascata fino alla primaria e alla scuola dell’infanzia, che tanto successo hanno avuto a partire dagli anni Ottanta, quando delegazioni di docenti e pedagogisti di tutto il mondo arrivavano in Italia per vedere da vicino il cosiddetto Reggio Emilia approach.
E questo approccio non è mai venuto meno, tanto che nel 2011 nasce la Fondazione Reggio Children, che proprio in questi giorni ha firmato una dichiarazione di intenti con il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale allo scopo di promuovere nel mondo il modello formativo italiano, la conoscenza della lingua e della cultura italiana e le relazioni tra le comunità educative presenti in Italia e nel mondo. Nel quadro della Dichiarazione – come si può leggere sul sito del MAECE – sarà costituito un Tavolo di lavoro e saranno sviluppate azioni congiunte di promozione linguistico-culturale, in raccordo con il ministero e la sua rete estera.
Gli elementi costitutivi del Reggio Emilia Approach sono elencati sul sito della Fondazione: il lavoro collegiale e relazionale di tutto il personale, la presenza quotidiana di più educatori e insegnanti con i bambini, l’atelier e la figura dell’atelierista (insegnante con formazione artistica), la cucina interna come atelier del gusto, l’ambiente come educatore, la documentazione per rendere visibili i processi creativi di conoscenza, il coordinamento pedagogico e didattico, la partecipazione delle famiglie.
Il bambino, secondo Loris Malaguzzi – il pedagogista che nei primi anni Sessanta del secolo scorso fonda quello che poi diventerà il Reggio Emilia Approach – è portatore e creatore di conoscenza allo stesso tempo, protagonista e costruttore del proprio percorso di apprendimento. A differenza dell’impianto metodologico-didattico della scuola tradizionale, i bambini non ricevono più o meno passivamente le conoscenze trasmesse loro dai docenti ma, al contrario, imparano a conoscere le cose del mondo attraverso il contatto diretto con l’ambiente che li circonda e compiendo azioni e operazioni mentali di conferma, verifica o confutazione. Un metodo che si avvicina al costruttivismo di Piaget, in cui il ruolo degli insegnanti sarà molto simile a quello di un facilitatore, di un co-costruttore di apprendimenti. Il docente, in sintesi, accompagna il bambino nei suoi processi di scoperta e apprendimento, incoraggiando scambi, ragionamenti e osservazioni.
Tale approccio ha prodotto tantissime istituzioni scolastiche diffuse nel mondo che si ispirano ai suoi princìpi: tra queste, la Scuola Maria Montessori a Barcellona, l’Istituto Fondazione Torino a Belo Horizonte, la Scuola Italiana a Madrid, la Scuola d’Italia Marconi a New York, l’ International School a San Francisco, l’Istituto Eugenio Montale a San Paolo, la Scuola Italiana a Zurigo.
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