“Basta con le prove Invalsi, stop ai quiz” è stato uno degli slogan più gettonati nel mondo della scuola negli ultimi due anni, quasi come quelli contro la chiamata diretta e il bonus premiale.
Anzi in molti vanno fino alle conseguenze estreme del “chiudere l’Invalsi”: dicono i docenti “no-Invalsi” che si risparmierebbero una ventina di milioni che potrebbero ottimamente servire per scopi assai più nobili, a cominciare dalla messa in sicurezza degli edifici scolastici.
D’altra parte l’Invalsi è da sempre al centro di polemiche e contrasti soprattutto nelle settimane immediatamente successive alla divulgazione dei dati delle rilevazioni. Molti docenti, per esempio, ne contestano la validità facendo osservare che gli esiti delle prove contrastano spesso con quelli degli esami di Stato: i punteggi medi delle prove, infatti, non coincidono quasi mai con i voti della “maturita”; nelle regioni del sud si registrano voti d’esame più alti rispetto al nord, esattamente il contrario di quanto avviene per le prove Invalsi e tanto basta al movimento “no Invalsi” per sostenere che le prove standardizzate sono solamente una perdita di tempo e uno spreco di denaro pubblico.
Con l’uscita di scena della “vecchia” politica e con l’arrivo del “governo del cambiamento” si è subito formata nei social una corrente di pensiero convinta che ormai l’Invalsi abbia davvero i giorni contati.
Ma è davvero così?
A giudicare dai fatti e dalle prime dichiarazioni del Ministro e del suo staff dobbiamo ammettere che il problema dell’Invalsi non sta fra le priorità del nuovo esecutivo, anzi per la verità sembra proprio che non ci sia la benché minima intenzione di chiudere l’Istituto e di cancellare le prove.
Anche perché, è bene ricordarlo, per eliminare le prove non basta un atto amministrativo ma è necessario un provvedimento di legge che, almeno per il momento, non è neppure allo studio né del Parlamento né tanto meno del Ministro.
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