L’Italia, sulla base delle tabelle di spesa pubblicate da Il Fatto, si caratterizzata per essere un paese con una spesa relativamente elevata nei segmenti iniziali dell’istruzione, comparativamente ad altri paesi europei, ma arretrando gradualmente a livello secondario e rimanendo distanziato in modo netto a livello terziario.
Questo sbilanciamento della spesa è in parte giustificato dal fatto che il nostro paese ha dovuto recuperare negli ultimi decenni del secolo scorso un divario di scolaritàrispetto alle medie europee, necessità che spinse i Governi di allora a investire consistenti risorse nei segmenti dell’istruzione dell’obbligo, fino ad arrivare a introdurre lo schema di due insegnanti per classe in presenza del tempo pieno. La numerosità degli insegnanti, scrive sempre Il Fatto, faceva premio sui loro livelli retributivi (tra i più bassi dell’Europa), ma l’effetto complessivo era un gonfiamento della spesa, di cui si ravvisano ancora gli effetti di trascinamento.
Se a questo si aggiunge il fatto che circa un insegnante su sette è di sostegno, si comprende come sia possibile combinare costi complessivi elevati e bassi livelli retributivi.
Nel corso dell’ultimo decennio la situazione si è parzialmente modificata per effetto dei tagli introdotti dai Governi di centro-destra e nel 2011 l’Italia spendeva il 3,1 per cento del Pil in istruzione primaria e secondaria, contro una media europea (a 21 paesi) del 3,6 per cento, mentre le corrispondenti cifre per il livello terziario (che in Italia è rappresentato quasi esclusivamente dal segmento universitario) erano pari rispettivamente a 1 per cento e 1,4 per cento.
Per entrambi, il divario con l’Europa si è allargato di circa 5 punti percentuali, ma il dato è palesemente peggiore nel caso del livello universitario (dove raggiunge quasi il 30 per cento) rispetto al livello dell’obbligo (dove il divario è dimezzato, essendo pari al 14 per cento).
La dinamica temporale a partire dal 2008 segnala una riduzione nei livelli di spesa di circa 3 punti percentuali all’anno, che viene accentuata dalla dinamica della produzione in calo sia nel 2009 che nel 2011, a fronte di una leggera crescita della spesa di 1-2 punti percentuali a livello europeo. Solo nell’ultimo anno sembrerebbe segnalarsi una inversione di tendenza, tuttavia a saldi complessivi ancora calanti.
Nel 2012 (ultimo dato disponibile), la quota di 15-19enni iscritti a scuola in Italia era pari all’81 per cento, contro una media europea del 87 per cento, mentre gli stessi valori scendono rispettivamente al 21 per cento e 29 per cento quando si consideri l’istruzione a livello universitario.
La spesa in istruzione è dunque calata in anni in cui la domanda stava crescendo
Le iscrizioni universitarie, che avevano seguito un trend decennale crescente e che si erano accelerate con la piena entrata in vigore della riforma del 3+2 nel 2005, rallentano fino all’inversione di tendenza nel 2008. Le iscrizioni cessano di crescere anche a livello di scuola secondaria a partire dal 2010, dopo aver raggiunto il picco (relativamente agli altri paesi europei) nel 2008.
Osserviamo quindi un andamento divergente tra atteggiamento della politica e scelte della collettività, mentre in Italia non abbiamo alcuna garanzia che l’espansione temporanea (e la successiva riduzione) della domanda di istruzione sia egualmente diffusa tra i diversi ceti sociali. Piuttosto vi è evidenza che, almeno nel caso della riforma del 3+2, essa abbia coinvolto principalmente ceti fino a quel momento socialmente esclusi dalla formazione universitaria. Quegli stessi ceti che di fronte al peggioramento delle prospettive sul mercato del lavoro e alla riduzione dei sussidi pubblici hanno preferito fare un passo indietro.
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