Molti studenti l’hanno visto, e ne sono rimasti colpiti. Troppi, però, han preferito altri film, e già ora non sanno più nemmeno cosa sia. Stiamo parlando del bellissimo (e più volte premiato) film di Matteo Garrone “Io capitano”, noto ai nostri lettori, perché la nostra testata se n’è già occupata più volte da settembre.
Un film che merita un posto nel curricolo di educazione civica. Difficile, per chi l’abbia visto, nutrire ancora ostilità contro i migranti. La pellicola mostra il viaggio dal Senegal all’Italia di due adolescenti senegalesi. Non ricchi, ma benestanti rispetto alla media del loro Paese, i due decidono di partire a tutti i costi per l’Europa, attratti dal miraggio di un mondo mitico (ma ben lontano dalla realtà), che hanno creduto di conoscere dalle notizie delle mirabolanti fortune dei calciatori africani divenuti celebri, dalle TV europee e dal web. Gli adulti li avvisano dei rischi, ma loro sono giovani, non capiscono il pericolo, e sono semplicemente entusiasti di vedere l’agognato paradiso di bengodi, dal quale tornare ricchi e famosi.
Subito il viaggio appare pieno di rischi, di personaggi inquietanti, di documenti falsificati, di “contratti” di viaggio basati su strette di mano e cieca fiducia nel domani. Finché, all’improvviso, l’incubo prende il sopravvento. «Uno è caduto! Fermatevi!» Gridano i passeggeri dell’autocarro rombante che li porta stipati a velocità pazza attraverso il Sahara. Il guidatore arabo nemmeno rallenta, ma grida, sghignazzando feroce sotto il turbante: «Ve l’avevo detto di tenervi forte!». I giovanissimi protagonisti (Moussa e Seydou), vedono con terrore persone cadere dal camion e rimanere ferite e abbandonate nel deserto, mentre gli aguzzini che li trasportano si mostrano sempre più per quello che sono: autentici negrieri del terzo millennio senza più nulla di umano.
Poi, l’incubo assomiglia alla discesa nell’inferno di una schiavitù autentica e concreta, come quella di secoli fa (che credevamo sepolta), dalla quale molti non riusciranno a uscire, se non morti. Tanti sono quelli che non ce la fanno. Seydou, dopo un’autentica odissea, riesce a salire su un ferrovecchio a forma di barca — che non dovrebbe navigare nemmeno in un laghetto da luna park — con altre decine di poveri disgraziati come lui (che non sanno nemmeno nuotare), per avventurarsi sul Mediterraneo. I negrieri gli dicono che dovrà guidar lui la barca: basta che vada sempre dritto, e sarà in Europa.
E in Europa Seydou arriverà profondamente trasformato. Tanto che la storia raccontata in questo film potrebbe definirsi Bildungsroman: un “romanzo di formazione”, il cui protagonista “nasce” come Uomo, in seguito alle esperienze vissute, che hanno trasformato lui e che trasformano anche lo spettatore, facendolo crescere insieme al protagonista.
Per questo il film si presta ottimamente ad un curricolo scolastico, di educazione civica in particolare. Chi lo vede non può non riflettere, è obbligato a capire quello che solo attraverso le storie, attraverso il cinema, attraverso la letteratura si può comprendere. E sarà una comprensione non soltanto razionale, ma anche emotiva; dunque completa. Meglio, sicuramente, di qualsiasi lezione teorica.
È un momento difficile questo per la nostra Italia. Gran parte della popolazione, esposta da decenni a una crisi senza fine — economica ma anche sociale, culturale, etica — nonché alle illusioni del consumismo, stenta a ritrovare la propria antica solidarietà. Un ceto politico, che deve le proprie fortune alla medesima crisi, decisamente non invita alla solidarietà, se non a parole. Il razzismo si diffonde insieme all’ignoranza e alla paura, pompato e incentivato da chi deve a tutto ciò il potere.
Mezzo secolo fa nessuno lo avrebbe mai pronosticato: la discriminazione razziale oggi in Italia è un cancro — benché non ancora terminale — conclamato da decenni. L’esempio, purtroppo, viene spesso dall’alto. Il 6 settembre scorso, infatti, non è stato permesso a Henri-Didier Njikam (45 anni, direttore del casting del film di Garrone) di venire a Venezia per la presentazione alla Mostra internazionale d’arte cinematografica. Motivo: era camerunense e di colore; quindi il personale dell’ambasciata italiana a Rabat non ha concesso il visto perché mancava — secondo loro — la certezza che se ne andasse dall’Italia una volta entrato.
«In pratica mi hanno trattato come un migrante», ha dichiarato il professionista, che aveva scelto comparse e controfigure del film, «come se volessi approfittare della situazione per scappare. Ma io ho un lavoro, una tessera professionale del Centro Marocchino del Cinema, due film in preparazione qui in Marocco. E, sinceramente, se avessi voluto lavorare in Europa, lo avrei già fatto».
Siamo insomma, continuando così, sulla buona strada per ripetere errori ed orrori avveratisi un secolo fa. La prevenzione va fatta scuola, e film come “Io capitano” possono costituire un vaccino efficace, perché emoziona, colpisce, fa riflettere. È un film che può determinare la risurrezione di sentimenti che nella nostra società sono soltanto assopiti. Quei sentimenti che hanno determinato il successo evolutivo della specie umana: compassione, solidarietà, altruismo, ospitalità, accoglienza. Su di essi si basa la Pace. Non sulla “deterrenza” né sull’odio — come a qualcuno di quelli che “contano” piace far credere — né sulla violenza né sulla legge del più forte. Occorre urgentemente farlo capire alle giovani generazioni, spiegandoglielo e inducendoli alla riflessione critica. Prima che sia troppo tardi.
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