Riduzioni delle spese per gli esami di Stato; riduzione degli esoneri e semiesoneri per i distacchi sindacali o presso il Ministero e le sue articolazioni regionali e provinciali da parte dei docenti; riduzione delle consulenze al Miur (anche se, per la verità, una consulenza qualunque su come evitare di fare uscite assurde come quella delle 24 ore avrebbe fatto probabilmente comodo al Ministero, un paio di settimane fa); riduzione dei progetti Pof gravanti sul Fondo d’Istituto meno legati alla didattica; introduzione di software “open source” per le segreterie delle scuole o i laboratori (finalmente ci sono arrivati: ma chissà perché non venga mai presa in considerazione l’idea di avvalersene in tutta la pubblica amministrazione!). Più altre proposte ancora, magari un po’ più rischiose, ma sulle quali si può quanto meno discutere.
Eppure si rimane ancora perplessi. Se era tutto sommato così “semplice” tirar fuori proposte nel complesso condivisibili e di ridotto impatto sulla qualità dell’offerta formativa nella scuola, perché si è così frettolosamente usciti con una proposta avventata e, per così dire, di debole acume, come quella delle 24 ore?
Le ipotesi sul tappeto per dare conto di tale comportamento “irrazionale” sono almeno tre. La prima, che per dovere di analisi consideriamo ma che nel contempo subito scartiamo, è quella riportabile ad una sorta di masochistico godimento a farsi politicamente del male, a prendere cioè decisioni che costituirebbero qualcosa di simile ad uno sprezzante hara-kiri politico.
Ma l’immagine di ministri della Repubblica emulanti i samurai giapponesi, con la katana ritualmente imbracciata a due mani e puntata sul ventre, gridanti qualcosa come “otà” o “oshitù” prima di perforarsi, sia pur metaforicamente, le budella, per quanto romantica e carica di suggestioni, certamente non regge.
Esclusa l’ipotesi di una improvvisa follia collettiva dettata da misteriosi virus o da altri ignoti agenti patogeni, proviamo a rimanere nei pur incerti confini della normalità cerebrale e ad ipotizzare una causa molto più semplice, quella della inadeguata conoscenza della materia trattata. E’ però difficile credere che, all’interno del Miur e nell’intero governo, nessuno fosse stato precedentemente informato del fatto che un insegnante lavorava più di 18 ore settimanali e che la ferale e inaspettata notizia sia arrivata fra capo e collo dei nostri ministri-tecnici solo troppo tardi, a bozza già diffusa presso gli organi di informazione, sulla scia delle bordate di proteste a seguito (per non parlare dei confronti con gli altri Paesi: ma non si pretendeva neanche tanta solerzia e profondità di analisi da chi ci governa).
Ma anche questa ipotesi, oggettivamente, non sta in piedi. I ministri o i sottosegretari, particolarmente quelli che si occupano di scuola, dovrebbero sapere cosa fa un docente. O avrebbe comunque dovuto metterli al corrente qualche tecnico che lavora per questo governo di tecnici. Quanto meno avrebbero dovuto saperlo i loro figli o nipoti, i quali vedranno pure ogni tanto i loro insegnanti consegnare compiti già corretti, svolgere in classe lezioni precedentemente preparate, accompagnare gli studenti nei viaggi di istruzione, garantire sportelli didattici, correggere prove Invalsi, elaborare complessi progetti rigorosamente a costo (e retribuzione) zero, partecipare a colloqui scuola-famiglia o a riunioni di varia natura (Collegio dei docenti, Consigli di classe, dipartimenti, commissioni, gruppi di lavoro, riunioni straordinarie per questioni disciplinari).
Insomma, l’ipotesi che nessuno al “governo dei professori” sapesse ciò che un qualunque tredicenne distrattamente seduto all’ultimo banco della classe certamente già sa, o può facilmente immaginare, su cosa fa un professore, francamente non regge.
Il “giallo” quindi si infittisce. Se la causa non può essere la follia dell’hara-kiri e neanche l’ignoranza o la virginea caduta dalle nuvole di un intero Consiglio dei Ministri su cosa comporta fare oggi l’insegnante, ci deve essere stata un’altra causa a monte di questa finora incomprensibile decisione.
Balugina allora, adesso, un’ipotesi di natura diversa, un’ipotesi politico-demagogica: quella di aver ritenuto che l’opinione pubblica potesse facilmente seguire il Governo nel suo tentativo di far passare la categoria dei docenti come qualcosa di simile ad una delle tante (e giustamente invise alla popolazione) “caste” che ci sono oggi in Italia; una categoria sostanzialmente improduttiva e piagnona, ma abbarbicata come l’edera sul muro dei suoi storici “privilegi” (18 ore settimanali, tante vacanze nell’anno e d’estate, ecc.).
Niente di meglio insomma, che tagliare le spese dando anche una occhiuta strizzatine d’occhio all’opinione pubblica, con l’idea di colpire rendite di posizione e parassitismi o inerzie sociali particolarmente ingiustificabili in tempi di crisi e, soprattutto, con l’idea di far sapere di averlo fatto.
Il tentativo, piuttosto grossolano per la verità, non pare abbia però funzionato. La gente (e tutte le parti sociali, i partiti, ecc.) non si è accodata nel vedere nei docenti una categoria improduttiva o “pocofacente”, dimostrando sulla questione più conoscenza e consapevolezza di chi è oggi autorevolmente al timone della cosa pubblica.
Dove nasce l’irritazione dei docenti
Ciò che più ha irritato i docenti è stato l’aver visto misconosciuta la loro professionalità, sia in termini di quantità che di qualità di lavoro; l’essersi visti addebitare in prima persona la scarsa produttività di un sistema complesso come la scuola; l’essere stati diretti destinatari di un provvedimento che, anche linguisticamente, aveva la forma di un diktat e che, dall’oggi al domani e senza ombra di contrattazione sindacale e di tutela costituzionale, stabiliva che una certa categoria lavorativa avrebbe lavorato di più senza alcuno stipendio aggiuntivo e che le norme individuate non avrebbero potuto essere derogate dai contratti collettivi di lavoro (evidentemente, dissotterrare il buon vecchio “metodo Brunetta”, all’occorrenza, pare possa sempre rivelarsi utile).
Ad irritare ulteriormente tanti docenti è stato l’aver constatato, leggendo gli articoli della bozza, che erano stati messi offensivamente sul tavolo i quindici giorni in più di ferie l’anno nei giorni di sospensione delle lezioni, con una concomitanza che rimanda lontano il pensiero a biblici e truffaldini piatti di lenticchie offerti in cambio di preziose primogeniture.
Ma ha soprattutto reso del tutto basiti i docenti l’aver il Ministro dimostrato di non conoscerli ancora e di aver anche tradito le aspettative dei tanti precari che non possono sperare in null’altro che nelle supplenze brevi per fare qualche punto, col rischio di doverli invece andare ad elemosinare presso qualcuno dei tanti “diplomifici” paritari o legalmente riconosciuti ma ancora illegalmente operanti sul territorio, soprattutto al Sud (istituti sulla cui “produttività” sociale e culturale stranamente nessuno invece si interroga mai); l’aver assunto comportamenti contraddittori come l’indizione di un concorso per precari in una scuola che, con insegnanti a 24 ore, non solo non avrebbe avuto bisogno per anni di alcun precario, ma avrebbe dovuto tagliare un notevole numero degli attuali insegnanti di ruolo.
Ancora, ha indignato, offeso, fatto arrabbiare gli insegnanti l’aver il Ministero e l’intero Governo dimenticato che, in questi anni, la figura del docente ha avuto una evoluzione professionale legata all’evoluzione della nostra società, che l’ha visto caricarsi di competenze e responsabilità prima sconosciute. Non si può dire proprio al docente di oggi che lavora poco, nel momento stesso in cui lo si lascia (senza adeguata formazione e senza risorse e strumenti) a dover affrontare le nuove sfide culturali, sociali e professionali che si giocano sul campo della gestione delle classi multietniche, delle difficoltà e disturbi di apprendimento, delle nuove tecnologie, del contrasto alla controeducazione dei media, delle funzioni di supplenza educativa nei confronti di ragazzi provenienti da famiglie in crisi o socioculturalmente svantaggiate, nella gestione del bullismo o della violenza minorile presente nelle scuole, del raccordo fra scuola e mondo del lavoro, fra scuola e civismo, fra scuola e principi di vita basilari come la salute, l’ecologia, la legalità. In un lavoro in cui si tenta peraltro di svuotare ogni giorno con semplici “secchi” il “mare” di cattivi esempi e di pessima gestione della cosa pubblica che soprattutto il mondo politico, così desideroso di menare fendenti alla scuola, genera continuamente.
Non si può chiedere tutto questo e nello stesso tempo affermare che la persona a cui lo si chiede, e che si lascia peraltro senza mezzi in questo lavoro, lavora poco e male o che è poco produttiva. Che deve pertanto lavorare di più e senza per questo ottenere alcuna retribuzione proporzionale. Era inevitabile che, ad andar bene, l’avrebbero presa per matto, signor Ministro.
Adesso, con qualche cicatrice in più nella loro memoria recente e con molta fiducia in meno rispetto a qualche settimana fa, i docenti in Italia attendono quali saranno le prossime mosse del Miur.
Le facciamo comunque i nostri migliori auguri, Ministro, ma è bene che ci diciamo con una certa franchezza che sarà difficile dimenticare in tempi brevi dove Le (o vi) era venuto in mente di portare la scuola nel tentativo di cavalcare il sempre seducente cavallo della demagogia. Col rischio, molto concreto, di rimanerne maldestramente disarcionati.