Finalmente una buona notizia. Parlo degli ITS, cioè degli istituti tecnici superiori, da dieci anni presenti in Italia. Si tratta di percorsi biennali post diploma, divisi per specializzazioni, una garanzia in termini occupazionali, visti i risultati che parlano di oltre il 90% di posti di lavoro assicurati alla fine dei due anni. Il premier Draghi ne ha fatto cenno, nel corso del suo intervento di presentazione del suo governo, come uno degli obiettivi centrali della sua azione nel campo formativo.
Ha parlato di un impegno di spesa di un miliardo e mezzo nel Recovery, e, soprattutto, di una prospettiva che può in concreto corrispondere alla domanda di raccordo tra formazione e lavoro. Ricordo che gli ITS in Italia attualmente sono poco più di un centinaio, per poche migliaia di giovani, mentre in altri Paesi sono fortemente incentivati, con grandi numeri. Ancora oggi da noi è invece ancora marginale il suo ruolo, compresa la prospettiva fuorviante delle lauree professionalizzanti invocate dalle università, le quali così rischiano di affossare proprio gli ITS, con l’illusione di offrire ai nostri giovani una occupabilità solo sulla carta ai loro titoli di studio.
Gli ITS, invece, una gamba post diploma diversa dall’Università, centrata su “Fondazioni di partecipazione” che vedono le aziende protagoniste per il 70%, è una offerta formativa che vede gli studenti nelle aziende per il 50% del loro tempo-studio, cioè didattica laboratoriale a tutto tondo. Ricordo che questi corsi sono previsti su base regionale, su temi specifici del mondo del lavoro. Il titolo di studio è un diploma statale di “tecnico superiore”.
In questi dieci anni (ho avuto la ventura, da preside di un Itis a Vicenza, di lavorare alla nascita dell’ITS meccatronico), gli ITS in Italia hanno dimostrato che, dati alla mano, i tecnici, se ben preparati, non solo trovano immediatamente lavoro, ma lo trovano in forma qualificata, tanto che le stesse aziende cercano a più non posso il diplomato ITS, con una domanda che è molto superiore al numero di giovani formati annualmente.
Queste cose il neo ministro Patrizio Bianchi le conosce bene, tanto da averle inserite, nel suo libro di recente uscito, tra le sue più concrete preoccupazioni. Ma un problema ora si pone per lo stesso ministro: la divisione tra ministero dell’istruzione e ministero dell’Università. Una divisione che, nel caso degli ITS, è un pasticcio. La separazione, cioè, tra i due ministeri, in termini di competenze, ha visto gli ITS, che sono per loro natura parte del segmento terziario nel nostro sistema formativo, essere invece associati al ministero dell’Istruzione, addirittura nella Direzione degli ordinamenti, cioè parte del settore scuola.Quasi a dire di un percorso formativo terziario di serie B.
Lo ripeto, un bel pasticcio. Vogliamo combattere la dispersione in Italia, ed in particolare il fenomeno Neet? Vogliamo cioè dare una speranza di futuro ai nostri giovani, secondo le loro diverse attitudini? Sapendo che (una verità di cui ancora non si parla) gli studenti liceali in Italia sono troppi, con scelte che, per il 45% (dati Alma Laurea), non rispettano le intelligenze multiple dei nostri ragazzi, quindi talenti, speranze, passioni, è dunque strategico offrire un percorso formativo superiore che consenta diverse uscite, con possibilità di “passerelle” nel rispetto di aspettative e speranze. Per corrispondere alla sempre più pressante domanda di occupabilità dei titoli di studio.
È cioè grave, rispetto alla Germania e alla Francia, che siano oggi ancora pochi gli studenti iscritti agli ITS. Un plauso, dunque, alle fondazioni ITS, le quali, in questi dieci anni, hanno compiuto degli autentici miracoli riuscendo a organizzare corsi di qualità, garantendo sbocchi occupazionali qualificati a molti diplomati provenienti, soprattutto, dagli istituti tecnici e professionali. Fondazioni che non possono ancora contare su punti fermi, quali i finanziamenti (i corsi ITS vanno a bando ogni anno), un organico stabile e una programmazione pluriennale.
Quanti soldi lo Stato ha impegnato sino ad ora? Sono state poche le risorse, cioè 13 milioni di euro all’anno fino a poco tempo fa e ora poco più di 30. Cioè cifre irrisorie, sapendo del loro ruolo strategico. Per cui è bella la notizia di questi nuovi finanziamenti. Una buona notizia che vede, nel contempo, un ruolo attivo delle Regioni. Se all’inizio dovevano contribuire per il 30% al finanziamento dei corsi, col tempo hanno saputo fare affidamento al Fondo sociale europeo, tanto che, in alcuni casi, si è arrivati all’80% del finanziamento complessivo. Nodo finanziamenti, dunque.
Ma nodo anche di riconoscimento formale, per la confusione creata dalle cosiddette lauree professionalizzanti, uno specchietto per le allodole, perché, di fatto, si sovrappongono agli ITS.
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