Come abbiamo anticipato nell’articolo precedente, scetticismo e polemiche (anche legittime) avevano accompagnato e persino anticipato l’avventura dell’Italia nel campionato mondiale di calcio del 1982.
Finita, dopo un avvio abbastanza anonimo e stentato, nel girone di qualificazione alle semifinali con due avversarie considerate tra le favorite per il successo finale, soprattutto un Brasile spettacolare nel gioco di squadra e nelle qualità dei singoli, ma anche un’Argentina dove già si era manifestato il “fenomeno” calcistico Maradona, la nazionale guidata in panchina da Enzo Bearzot sembrava destinata all’eliminazione.
Ma nella prima partita del mini-girone l’Italia sconfisse 2 a 1 l’Argentina, in cui giocava appunto un giovane Diego Armando Maradona. E fu proprio quella la partita che ridiede fiducia a una squadra un poco dimessa e sottotono come era stata quella italiana sino a quel momento.
Nella seconda gara il Brasile riuscì a regolare l’Argentina con un perentorio 3 a 1, risultato che metteva fuorigioco la compagine “albiceleste” e dava un vantaggio alla “seleccion verdeoro” a cui quindi (avendo segnato un gol più dell’Italia) sarebbe bastato un pareggio con gli azzurri per passare il turno. Bisognava pertanto battere un Brasile pieno di campioni, che sembrava potere rinverdire i fasti del grande Brasile di Pelè, che aveva vinto il mondiale nel 1958, nel 1962 e nel 1970 in Messico proprio contro l’Italia, che era arrivata a quell’appuntamento dopo la indimenticabile – per chi allora era un ragazzo o un bambino – semifinale vinta dagli azzurri 4 a 3 dopo i tempi supplementari contro la Germania ovest.
Brasile-Italia si disputò in uno stadio gremito, anche perché si giocava in un impianto non molto grande, il Sarrià che ospitava le partite casalinghe dell’Espanyol (la seconda squadra del capoluogo catalano) e non quindi al Camp Nou dove gioca il Barcellona. E in quella fantastica partita si sbloccò Paolo Rossi, che sino ad allora non aveva segnato neppure un gol ma al quale Bearzot aveva confermato la propria fiducia: tre reti di “Pablito” (che alla fine del torneo sarà capocannoniere con sei marcature). Alle prime due risposero i brasiliani Socrates e Falcao (due grandissimi giocatori), ma il terzo gol di Rossi fu quello decisivo, anche se l’Italia dovette soffrire sino alla fine, con una parata sulla linea di porta del bravo Dino Zoff (sofferenza che si sarebbe evitata se a pochissimi minuti dal termine dell’incontro non fosse stato annullato per un fuorigioco inesistente una rete ad Antognoni, che avrebbe sancito il 4 a 2 per gli azzurri).
Sulle ali dell’entusiasmo sembrò quasi scontato il successo dell’Italia in semifinale contro la Polonia, come se si fosse dimenticato quanto invece nella partita di esordio del torneo la stessa Polonia avesse giocato nettamente meglio della Nazionale italiana che riuscì a ottenere in quella occasione solo uno stentato pareggio “a reti inviolate”. In semifinale altri due gol di Paolo Rossi. E alcuni calciatori polacchi cominciarono a “giocare duro”, ne fecero le spese soprattutto Graziani e Antognoni costretti a uscire dal campo.
Così arrivò il momento della finale contro la Germania (allora ancora Germania ovest, che nell’altra semifinale aveva sconfitto in rimonta, nei tempi supplementari, la Francia), gli azzurri erano ormai lanciatissimi e in grande forma, ma l’assenza per infortunio del suo giocatore di maggiore classe, Antognoni, che formava con Tardelli, Oriali e l’ala “tornante” Bruno Conti un centrocampo di grande affidabilità) dava qualche preoccupazione in più. Quel giorno la squadra azzurra era la seguente: Zoff, Gentile, Bergomi (allora poco più che diciottenne, scelto per sostituire, seppure in un ruolo completamente differente, il capitano viola infortunato), Collovati, Scirea, Cabrini (spostato più avanti, a centrocampo), Conti, Tardelli, Rossi, Oriali, Graziani (il quale dopo meno di dieci minuti avrà il riacutizzarsi del precedente infortunio subito in semifinale e sarà sostituito da Altobelli). Alla fine del primo tempo, rigore a favore dell’Italia per un fallo subito da Bruno Conti: mancando lo specialista dei rigori, appunto Antognoni, sul dischetto va Cabrini, ma la palla termina fuori. Si poteva temere un “contraccolpo” ma gli azzurri erano davvero “in grande spolvero” e nella ripresa il solito Pablito Rossi sbloccò la partita, poi ci fu il raddoppio di Tardelli (famoso il suo “urlo” dopo il gol!) e infine gloria anche per Altobelli che siglò il 3 a 0 (poi nei secondi finali cedette il posto a Causio, ormai non più giovane come calciatore, a cui Bearzot volle “regalare” il nome nel tabellino della finale), prima che il tedesco Breitner fissasse il risultato finale sul 3 a 1 e il telecronista Nando Martellini ripetesse con entusiasmo per tre volte “campioni del mondo!”.
In quella partita tutti bravissimi (come peraltro nelle tre gare precedenti), ma su tutti quella sera mi piace citare Paolo Rossi che ancora una volta fu decisivo, Bruno Conti (pronto e scattante in ogni parte del campo), Gaetano Scirea (il regista difensivo, calciatore di grande classe) e Marco Tardelli per il gol che mise praticamente al sicuro il risultato.
Ma mi sembra corretto citare tutti i 22 atleti che facevano parte di quella squadra che andò in Spagna: Zoff, Gentile, Cabrini, Oriali, Collovati, Scirea, Conti, Tardelli, Rossi, Antognoni, Graziani. E poi quelli che giocarono di meno: Bergomi, Marini, Altobelli, Causio. Infine anche quelli che non giocarono ma facevano parte di quel gruppo di atleti e di uomini che hanno lasciato un grande ricordo non soltanto agli appassionati di calcio: i portieri Bordon e Giovanni Galli, i difensori Vierchowod e Franco Baresi, i centrocampisti Dossena (in panchina nella finale) e Massaro, l’attaccante Selvaggi.
Ma di quella “avventura” in terra di Spagna e in particolare della finale allo stadio Bernabéu di Madrid nella memoria collettiva il ricordo che molti hanno “fotografato” è quello del presidente partigiano Sandro Pertini (che ancora oggi dovrebbe essere un esempio per il nostro Paese e per il socialismo europeo che invece di quei valori ha mantenuto quasi nulla), che festeggia con grande gioia e disinvoltura non certamente istituzionale la vittoria della Nazionale italiana.
Ma perché quel successo, che inebriò di gioia l’intero Paese (anche coloro che non seguivano quasi mai il calcio se ne sentirono partecipi, nella stragrande maggioranza dei casi), rimane un ricordo indelebile, una “pietra miliare” nella storia sportiva – ma anche con riflessi sociali – italiana, molto più che altre vittorie calcistiche (per esempio il mondiale del 2006 quando la nazionale guidata dal tecnico Lippi prevalse sulla Francia ai rigori nella finale di Berlino, oppure i campionati europei vinti nel 1968 e recentemente nel 2021)?
Forse anche perché i tifosi volevano dimenticare la “vergogna” che si era abbattuta su parte del sistema calcio due anni prima, nel 1980 (il cosiddetto “calcio scommesse”), ma soprattutto perché quei “ragazzi di Bearzot”, così criticati all’inizio, avevano trovato le energie, mentali e atletiche, per “riscattarsi” in maniera quasi inattesa: sicuramente piacque lo spirito di squadra, a parte la classe individuale di alcuni giocatori.
E soprattutto non c’erano i “procuratori” che ormai condizionano le scelte degli atleti, e il calcio – tra diritti televisivi ed altro – è diventato un autentico “business”. Non ci sono più le cosiddette “bandiere” che legavano il proprio nome e la propria carriera calcistica ad una squadra: per esempio Zoff e Scirea nella Juventus, Antognoni nella Fiorentina, Bruno Conti nella Roma, e ancora prima Mazzola e Facchetti nell’Inter, Rivera nel Milan, Gigi Riva nel Cagliari, e potemmo citare tanti altri “uomini simbolo” di varie squadre. Oggi è il “mercato” che comanda anche nel calcio e le cifre non sono certo equiparabili a quelle dei decenni precedenti.
Peraltro, anche nel mondo del calcio si guarda più ad una certa esteriorità: gli atleti di allora non avevano tutti quei tatuaggi che moltissimi hanno oggi (si potrà obiettare che magari a qualcuno non piaceva che diversi di loro portassero i capelli lunghi) e soprattutto non c’era l’esasperata ricerca della visibilità, costruita in modo “accattivante” come spesso accade adesso. Come accade non solo nell’ambito dello sport o dello spettacolo.
A volte viene da sorridere quando si vedono cantare a squarciagola i giocatori della nazionale l’Inno di Mameli (allora, in un’Europa dove non erano ancora emersi i “nazionalismi” spesso di facciata, l’inno non si doveva cantare “per forza”, qualcuno lo sussurrava, altri tenevano la mano sul cuore durante la sua esecuzione): e sentire in questi ultimi anni giocatori strapagati urlare “…siam pronti alla morte” prima di una partita di calcio fa veramente sorridere (forse son “pronti alla morte”, in maniera ovviamente metaforica, per qualche milione in più strappato dai loro procuratori a qualsiasi società calcistica li offra?). Già, il “Canto degli italiani”, l’Inno di Mameli (come ci insegnarono nelle vecchie scuole elementari dove magari non si perseguivano “competenze” ma ci insegnavano le tabelline da imparare a memoria, che tanto servono nella vita, si studiava bene la grammatica e si curava l’ortografia). Oggi quanti ragazzi, magari mentre lo cantano, sanno che il “Canto degli italiani” (conosciuto anche come “Fratelli d’Italia”) è stato scritto da Goffredo Mameli e musicato da Michele Novaro nel 1847? E ancor meno, immagino, sanno che il testo risorgimentale si compone di sei strofe e un ritornello. E addirittura quanti nostri studenti sanno che Goffredo Mameli era un patriota mazziniano e che poi, a fianco di Garibaldi, morì a soli 21 anni durante la difesa della Repubblica Romana del 1949, nota anche con il nome Seconda Repubblica Romana?
Una domanda che ci riporta, in questo caso per la disciplina della Storia (ma potremmo anche fare riferimento alla Geografia, alla Letteratura, alla Storia dell’arte, ecc.), al discorso (scaturito anche dopo gli esiti insoddisfacenti delle rilevazioni Invalsi) sull’acquisizione di solide conoscenze (non parliamo ovviamente di “nozionismo” fine a se stesso), conoscenze forse inutili per chi vuole affermare soltanto quelle “competenze” che servono al sistema produttivo, il cosiddetto “saper fare”, laddove invece le competenze dovrebbero rappresentare il risultato, maturato attraverso lo studio e il pensiero critico, del sapere unire conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e metodologiche.
“Campioni del mondo”, ripeteva a fine partita il telecronista. E la sera dell’11 luglio di 40 anni fa c’ero anche io in piazza a festeggiare un bel successo sportivo. Certamente erano altri tempi, forse migliori di quelli attuali, o magari ad alcuni sembra così perché allora avevamo intorno ai vent’anni di età!
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