Chi è l‘analfabeta funzionale? In base alla definizione del rapporto Piaac-Ocse, l’analfabeta funzionale è più incline a credere a tutto quello che legge in maniera acritica, non riuscendo a “comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità”.
Quindi non bisogna fare confusione con l’analfabeta strutturale, cioè chi non è in grado di leggere e scrivere. Piuttosto, stiamo parlando di un fenomeno secondo cui un individuo ha appreso le basi della scolarizzazione, ma non è in grado di leggere i termini di un contratto, di compilare una domanda di lavoro, di interpretare o riassumere un testo. Sintetizzare un discorso o comprendere un breve articolo di giornale.
Lo abbiamo ricordato anche in un precedente articolo, in cui il giornalista Franco Di Mare, nel corso di “Sarò Franco”, rubrica inserita all’interno della trasmissione di Rai 1 “Unomattina”, ha proprio analizzato la questione, puntando su episodi che coinvolgono tanto la “gente comune”, come i concorrenti di un gioco a quiz che non riescono ad individuare la data di elezione a cancelliere tedesco di Adolf Hitler, che dei soggetti preposti alla formulazione dei test dell’ultimo concorso per direttori delle sedi estere dell’Istituto italiano di Cultura, con quesiti che riportavano diversi errori.
Gli analfabeti funzionali, in base a quanto riporta lo Human development report 2009, un indice calcolato tra i paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), sarebbero in Italia il 47%, occupando un posto in alto, purtroppo, nella classifica dedicata dallo studio.
Invece, a parere di Tullio De Mauro, gli analfabeti funzionali in Italia sarebbero addirittura l’80 per cento, dal momento che “soltanto il 20 per cento della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea”.
Sempre invece in tema di dati e statistiche degli ultimi anni, nel 2016 l’Istat ha fornito una panoramica che vedeva in Italia il 6,3% dei cittadini maschi avere una licenza elementare, il 36% la licenza media, il 6,8 un diploma di 2-3 anni, il 35,6 per cento ha un diploma di 4-5 anni e il 15,3 per cento ha conseguito la laurea.
Per quanto riguarda le donne, l’8,2% licenza elementare, il 30,5% la licenza media, il 6,6 ha un diploma di 2-3 anni, il 34,9 per cento ha un diploma di 4-5 anni e il 19,8 per cento ha conseguito la laurea.
Quindi, a ben vedere, i dati sull’istruzione, per quanto non eccellenti, non sono esattamente negativi. E poi parliamo comunque di qualche anno fa.
Il problema quindi non è il titolo di studio in sé, forse, ma quanto ha inciso questo nella cultura e sulla formazione delle persone.
In base ad un studio dell’Osservatorio Isfol, per quanto riguarda gli ignoranti funzionali, soltanto il 10 percento è disoccupato, fa lavori manuali e routinari, poco più della metà sono uomini e uno su tre è over 55.
Tra i soggetti più colpiti le fasce culturalmente più deboli come i pensionati e le persone che svolgono un lavoro domestico non retribuito, scrive l’Espresso, mentre, per quanto riguarda la distribuzione geografica, il sud e il nord ovest del Paese sono le regioni con le percentuali più alte, visto che da sole ospitano più del 60 percento dei low skilled italiani.
A questo punto la domanda che sorge spontanea è: la scuola che ruolo ha in questo analfabetismo funzionale? I dati sulla dispersione scolastica non sono affatto incoraggianti, anzi: dal 1995 a oggi, come segnala TuttoScuola in un dossier, 3 milioni e mezzo di studenti hanno abbandonato la scuola statale, su oltre 11 milioni iscritti alle superiori (-30,6%).
Rimangono Sicilia, Campania, Sardegna, Puglia e Calabria le regioni con più elevato tasso di abbandono scolastico.
I costi sono enormi: 55 miliardi di euro. L’emorragia continua perché almeno 130 mila adolescenti che iniziano le superiori non arriveranno al diploma.
Lo ribadisce anche uno studio dello Svimez, associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, che segnala come al Sud il 18,5% dei ragazzi hanno abbandonato la scuola avendo conseguito al massimo la licenza media.
Ma sappiamo che il problema riguarda anche e soprattutto chi al diploma ci arriva. Quindi, forse si tratta di un problema interno e decisamente più profondo. Se le persone non sanno interpretare e comprendere un articolo di giornale, può essere colpa della scuola? Forse, ma i giudizi complessivi devono essere supportati da analisi complessive che tengono conto di tutti gli aspetti.
Sicuramente, e tutti gli insegnanti saranno d’accordo, un piano di investimento serio sull’istruzione, potrebbe essere già un primo, grosso, passo in avanti. Tenendo conto di tutte queste statistiche che negli ultimi anni lanciano un campanello d’allarme che non si può più ignorare.
Per chiudere, non possiamo non citare il ruolo che i social network giocano nella nostra società. “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”, affermava Umberto Eco, in occasione della laurea honoris causa in Comunicazione e cultura dei media a Torino, a giugno 2015.
Ed in effetti, i social sono diventati degli aggregatori e acceleratori di analfabetismo funzionale.
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