Cambiare la legge n. 91/1992 perchè “è superata e ha un impatto negativo sulla vita di centinaia di migliaia di bambine, bambini e adolescenti in Italia che, quotidianamente, si scontrano con barriere formali che impediscono loro di sognare e progettare concretamente il loro futuro”: serve una “riforma che metta al centro i diritti di tutti quei minori che nascono o crescono nel nostro Paese, ma che attualmente sono italiani di fatto e non di diritto“. A chiederlo è Save the Children che il 2 ottobre ha organizzato “Diritto e diritti di cittadinanza: quale spazio per i bambini e le bambine?“, un confronto tra società civile e mondo della politica sulla tematica.
Secondo Daniela Fatarella, direttrice generale di Save The Children, “dopo anni di tentativi per riportare il dibattito sulla cittadinanza al centro dell’agenda politica, che hanno visto impegnata anche la nostra Organizzazione, è arrivato il momento di fare passi avanti concreti per riconoscere finalmente questo diritto a bambini, adolescenti e giovani nati o cresciuti in Italia”.
“Ci rivolgiamo quindi con forza alla politica – aggiunge – perché si lavori insieme per modificare una legge che non rappresenta più il Paese. Inoltre, affinché tale cambiamento non sia solo formale, è cruciale dargli concretezza, sostenendo luoghi e spazi quotidiani di condivisione, come la scuola, che va ascoltata e supportata per il suo ruolo cruciale nel percorso verso una società più coesa e più giusta”.
Sono infatti quasi un milione gli alunni con cittadinanza non italiana che frequentano la scuola (914.860 studentesse e studenti, l’11,2% del totale degli iscritti), poco più della metà concentrati nel primo ciclo di istruzione: di questi, il 65,4% è nato in Italia.
Il disagio che portano dentro i giovani nati in Italia ma in attesa di cittadinanza è tangibile e confermato dai numeri. Secondo uno studio realizzato dalla stessa Save the Children nel 2023, infatti, il 45,5% degli studenti italiani (43,2% per i cittadini italiani con background migratorio) intervistati ritiene di poter ottenere un diploma di laurea, un master o un dottorato, dato che scende al 35,7% per gli studenti con background migratorio senza cittadinanza.
Inoltre, il 17,9% degli studenti con background migratorio senza cittadinanza italiana afferma di non sentirsi mai o quasi mai parte della scuola, percentuale che scende al 13,8% per gli studenti con background migratorio e con cittadinanza italiana e al 10,6% per i coetanei con entrambi i genitori italiani.
L’appello alla politica per cambiare la norma in vigore, introdotta ben 32 anni fa, arriva in un momento in cui il dibattito sulla proposta appare ben avviato: +Europa ha lanciato un referendum popolare che negli ultimi giorni ha fatto registrare una quantità di adesioni inaspettata (con tanto di sito internet preso d’assalto) superando ampiamente le 500 mila firme necessarie.
Anche uno dei partiti di Governo, Forza Italia, si è detto d’accordo nell’introdurre lo Ius Scholae prevedendo il conferimento della cittadinanza italiana al termine di un ciclo scolastico completo di primaria o secondaria: a giorni, confermano più fonti, la proposta sarà formalizzata in un vero e proprio disegno di legge.
A sinistra, praticamente tutti i partiti si dicono già d’accordo. Secondo la deputata Ouidad Bakkali, del Partito democratico, firmataria della mozione e della proposta di legge del Pd sulla cittadinanza, siamo arrivati a un punto che servirebbe approvare “tutti gli ius” per mettere il “minore al centro dei diritti”.
Serve “lo ius soli“, serve lo “ius scholae a partire dalla scuola dell’infanzia” e la “naturalizzazione a 5 anni“, ha detto la dem.
Poi, “in Italia si paga per diventare cittadini, 250 euro introdotti dalla Lega a pratica” che vuol dire che “per una famiglia di 4 persone 1.000 euro. È una tassa vessatoria. Questa cosa va abolita o ponderata per i nuclei fragili”.
Dai territori ad alto tasso di immigrazione, intanto, giungono storie che confermano l’altissima presenza di giovani non italiani che però parlano la nostra lingua e non conoscono la loro.
“Nella mia scuola contiamo 69 origini etniche e nei fatti non c’è nemmeno da parlare di inclusione, perché sono quasi tutti bimbi nati in Italia. Spesso sono terze generazioni, talvolta ignorano la lingua dei nonni”, ha spiegato Battiato Musmeci, dirigente scolastico dell’istituto comprensivo Gandhi di Prato partecipando all’iniziativa di Save the Children.
Uno dei problemi che deve fronteggiare nella sua scuola – con oltre 1.200 alunni dai 3 ai 14 anni di origine rumena, cinese, pakistana, algerine, keniota, e così via -, ha detto il preside, è “la circolare Gelmini del 2010 che fissa un tetto del 30% per classe di alunni stranieri. Io devo derogare ampiamente, altrimenti non formo le classi”.
Il preside Battiato ha spiegato che oggi “straniero” non vuol dire “non italofono. Io ho il 7-8% di alunni non italofoni, ben al di sotto del tetto della circolare, ma circa il 40% senza cittadinanza. Ci sono classi con l’80% di bambini con background migratorio. Ma quasi tutti parlano perfettamente italiano e non conoscono la lingua ‘madre’. A volte facciamo la giornata della lingua madre, dei paesi di origine, ma siamo costretti ad invitare i genitori perché molti bambini non la conoscono…”.
Tra le criticità riscontrate dal dirigente c’è l’organizzazione delle gite: “Quando organizziamo una gita, ad esempio a Nizza, i bambini non cittadini italiani hanno bisogno del visto e del passaporto e diventa tutto molto complicato. A volte preferiamo rinunciare come scuola a queste iniziative per non doverli lasciare fuori”, racconta. “L’integrazione tra i bambini non è un problema – afferma -: i bambini ignorano questo tipo di differenze. L’inserimento umano è automatico, le difficoltà che dobbiamo fronteggiare sono di ordine legale o pratico. E bisogna considerare che il flusso migratorio a Prato è continuo”.
Da un’indagine condotta dalla Tecnica della Scuola, a cui hanno partecipato nei giorni scorsi 768 lettori, la maggior parte dei quali docenti, è emerso che il mondo della scuola accoglierebbe con favore la proposta: l’unica componente contraria risulta quella dei genitori degli alunni, che in prevalenza sulla concessione dello Ius Scholae sembra mantenere più di una riserva.
L’indagine ha visto la partecipazione per il 735 di docenti, dirigenti, studenti, genitori e altro. La metà dei partecipanti vive al Nord (48.8%), mentre il resto è diviso equamente tra Centro, Sud e Isole.