Ha fatto il giro del web, e non solo, la lettera dello studente che, scrivendo un tema assegnatogli dall’insegnante, ha raccontato, in modo non troppo velato, il suo disagio di essere vittima di bullismo.
Come si legge su Repubblica.it, Ivan (nome di fantasia), scrive un tema rispondendo alla traccia: “Inventa un racconto in cui sono presenti i seguenti personaggi: una vittima, un gruppo di ragazzi prepotenti, degli spettatori, un adulto. Soffermati sui dialoghi e sugli stati d’animo dei diversi personaggi. Alla base del racconto può essere un fatto realmente accaduto o un episodio verosimile. Scegli un finale che preveda uno scioglimento positivo o una soluzione negativa”.
Dopo la correzione degli eleborati, l’insegnante riconsegna i compiti (dando 10 al contenuto di Ivan, 8/9 alla forma), chiedendo al ragazzo di leggere pubblicamente il suo, e lui lo fa.
A quel punto, alcuni ragazzini, compagni di classe, coinvolti negli episodi raccontati nel tema chiedono scusa. Anche se non tutti.
Ecco il tema di Ivan:
ALCUNE persone all’apparenza stanno bene, ma muoiono dentro. Io sono Ivan e ho dodici anni. Vivo in una cittadina del Centro Italia, in una famiglia modesta, ma senza amici. Fin da quando ero all’asilo non ho mai amato i giochi da maschio: calcio, carte, giochi elettronici… A me non sono mai interessati. Preferivo stare con le femmine, più interessanti, a mio parere.
Ero diverso, non sbagliato. Venivo preso in giro, deriso davanti a tutti, perfino i miei amici partecipavano, per poi chiedere pateticamente scusa. “Mamma, ma perché mi trattano così? Cos’ho che non va?!?!”. “Tranquillo, amore: sono solo invidiosi!”. Io non credo proprio.
Poi arrivo alle elementari, un’occasione di riscatto, lasciando il passato alle spalle. La prima cosa che i compagni notano di me è la mia voce, acuta, squillante, diversa da quella degli altri maschi. Conoscevo qualcuno, ma erano proprio quelli che mi guardavano con più disprezzo. Ero solo, di nuovo.
Successivamente lego con due bambine, diventano le mie migliori amiche. Nonostante il nostro profondo legame cerco di stare lontano da tutte e due, temevo che se mi avessero conosciuto meglio se ne sarebbero andate. Le offese si ripetono, non erano pesanti, ma era il modo in cui le dicevano che mi feriva.
Passano quattro anni e arrivo in quinta. Le prese in giro gradualmente finiscono e riesco finalmente ad entrare nel “mondo dei maschi”. Francesco, Flavio, Domenico, Roberto: eravamo inseparabili. Con l’arrivo in questo nuovo “mondo” o semplicemente un “diverso punto di vista” (come diceva papà) alcune cose cambiano in me. Inizio a seguire la moda, carte e gameboy sparsi per tutta la camera. Ero felice, finalmente.
Nella classe però c’erano alcuni ragazzi più emarginati, capivo come si sentivano e cercavo di stare vicino anche a loro: Alfredo, Saverio, Livio e Mario. Purtroppo questo bellissimo anno finisce.
Iniziano le medie. C’erano tutti: Livio, Domenico ecc… Entro a testa alta, fiero dell’anno precedente. Ma magari avrei dovuto abbassarla. Ginnastica, il mio punto debole. Non essendo interessato agli sport non ne avevo mai praticato uno. “Tutti alla sbarra! Flessioni!” urla il prof di ginnastica. Fiero di me mi getto sulla sbarra, faccio più flessioni che posso. Ma poi mi fermo. Tutti mi guardano. Uno dei compagni rompe il silenzio: “Ma cosa sei? Una femminuccia?!? “. “Già: scommetto che non sai nemmeno saltare!”.
Tutti ridono, mi indicano come se fossi un fenomeno da baraccone. Ero a pezzi. “Omosessuale” “Trans” , ormai era così che mi chiamavano. Inizio con l’autolesionismo, una droga potentissima di cui non puoi più fare a meno. Mi chiedo come sarebbe bere quel bicchiere di candeggina sopra la lavatrice.
Un giorno vado al mare con Domenico e Francesco. Vedo in lontananza Alfredo, Saverio e Livio con cui avevo chiuso i rapporti. Si avvicinano e mi spingono a terra, sento un calcio, poi un altro ancora, iniziano a picchiarmi. Vedo Francesco e Domenico dietro di me, pietrificati, non reagiscono semplicemente perché non vogliono vedere. Mi lasciano a terra senza nemmeno la forza di piangere. Torno a casa e mi chiudo in camera.
Accendo il telefono “Cento nuovi messaggi dal gruppo antIvan”.
Il gruppo l’aveva creato Alfredo, c’era tutta la scuola. Leggo solo insulti, nessuno mi difende. “Ivan” chissà se ricorderanno questo nome, una volta che non ci sarò più. Apro la finestra e mi lascio andare. È finita, finalmente in pace. Sono diverso, non sbagliato.
L’insegnante che ha dato e corretto il tema del giovane Ivan è molto soddisfatta, si legge sulla pagina torinese di Repubblica.it, perchè “Ivan è un ragazzino intelligente, studioso, maturo ma timido e che restava sempre in disparte. Ora invece scherza con i suoi compagni. Cosa l’ha cambiato? Sicuramente l’applauso dei coetanei quando ha finito di leggere il tema in cui raccontava, con profondità, lucidità e proprietà di linguaggio, i suoi anni di bambino umiliato e respinto.”
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