Ormai è noto a tutti: a livello di orizzonti lavorativi, quelli attuali non sono -eufemisticamente parlando – i tempi più floridi che la nostra società sta attraversando. Il precariato è divenuto una condizione pressoché endemica, le tutele per i lavoratori si assottigliano sempre di più, le prospettive per un trattamento previdenziale dignitoso anche. L’impressione, per fasce sempre più ampie della popolazione, è che quella di trovare soluzioni autarchiche stia diventando più un’esigenza che una possibilità.
Nello specifico stiamo parlando del caso italiano, ma se mettiamo il naso al di fuori dei nostri confini i termini della questione differiscono di pochissimo. Attualmente, solo pochi paesi europei possono assicurare alle loro popolazioni un welfare “blindato” e inaccessibile ai colpi della congiuntura economica sfavorevole. Mentre per quanto riguarda paesi come gli Stati Uniti, la situazione presenta molti punti di contatto con quella italiana, seppur declinata secondo parametri differenti. Ciò che non differisce è la condizione di quella che una volta era la working class, e che oggi, per potersi ancora fregiare della parola “working”, è costretta letteralmente a reinventarsi, a volte in maniera decisamente creativa e inusuale.
Dall’arte di arrangiarsi alla valorizzazione delle proprie potenzialità
Un tempo, questa necessità si declinava in ciò che in Italia abbiamo conosciuto con il termine di “arte di arrangiarsi”. Ovvero la capacità – che non a caso è stata spesso identificata come “tutta italiana” – di fare fronte alle difficoltà del guadagnarsi da vivere con pari inventiva e capacità di adattamento, talvolta collocandosi anche al di fuori delle regole. Tuttavia, parliamo di un’epoca passata, giacché oggi il mercato si è talmente ristretto e ridefinito da non consentire più il ricorso a piani B basati sull’improvvisazione.
Ecco che allora chi è costretto ad affrontare un ambito lavorativo sempre più competitivo deve puntare su altro. E questo “altro” si incarna nella valorizzazione di potenzialità individuali fino a quel momento tenute nascoste, oppure riposte in un angolo perché ritenute non funzionali allo sviluppo di un progetto di vita. Si tratta di una modalità tanto nuova quanto stimolante, dal momento che consente a molti di riconnettersi con antiche passioni messe in soffitta per convenienza, oppure con talenti sopiti non adeguatamente sfruttati.
Il knowledge sharing come strumento di riconoscimento del proprio potenziale
Il fenomeno del knowledge sharing sembra incardinarsi perfettamente in questa nuova forma di progettualità, aggiungendovi un elemento ulteriore: la trasmissione del sapere, come suggerisce il nome stesso. Di cosa si tratta?
Come suggerisce il nome, il knowledge sharing è una tipologia di occupazione che si è sviluppata inizialmente in ambito anglosassone, ma che si attaglia perfettamente alla situazione italiana corrente. Fondamentalmente, si tratta di una forma di e-learning, declinata nella maniera più libera possibile. Grazie ad alcune piattaforme di condivisione -ve ne sono di ogni tipo e con diverse modalità di contatto dalle più aperte e complete come Superprof a quelle più settoriali, fino ad arrivare a quelli per uso interno di aziende e istituzioni -, è possibile proporsi come insegnanti o tutor di qualsiasi disciplina, definendo ogni aspetto della propria metodologia di insegnamento. Dal costo orario delle lezioni alla struttura delle stesse, fino alle modalità di svolgimento (esclusivamente per via telematica, in una sede di propria scelta, a domicilio, o a scelta tra tutte queste opzioni), l’aspirante insegnante può prestare la propria opera nei termini e alle condizioni che preferisce, stabilendo autonomamente i confini qualitativi e quantitativi dei suoi contributi.
Starà poi agli aspiranti allievi scegliere l’insegnante più adatto alle sue esigenze, sulla base dei profili curriculari presenti sulla piattaforma.
Ovviamente, per essere riconosciuti come insegnanti è necessario avere delle credenziali ed esibirle. Più un proprio profilo sarà ricco di informazioni, arricchito da un CV credibile e nutrito di esperienze, e magari anche di un convincente video di presentazione, maggiori saranno le possibilità di essere contattati da aspiranti allievi/clienti. Pertanto, bisogna tenere presente che l’autopromozione – per molti un tasto dolente, se non altro a causa della scarsa dimestichezza con tale forma di comunicazione – è fondamentale per crearsi una classe virtuale numerosa e motivata, disposta a investire del denaro per entrare in possesso delle nozioni che siamo disposti a condividere.
Knowledge sharing: cosa significa
L’espressione knowledge sharing è caratterizzato da un sottotesto più democratico rispetto a termini come “ripetizioni” o “tutoring”. Si parla infatti di condivisione, e non più di trasmissione verticale del sapere, con un detentore dello stesso che ne lascia cadere dei frammenti più o meno grandi verso una pluralità di persone simbolicamente collocate al di sotto di lui. Il knowledge sharing è orgogliosamente orizzontale: non ci sono gerarchie, ma un rapporto diretto tra “professore” e “alunno”, in cui è addirittura quest’ultimo a scegliere il primo sulla base della sua volontà. Il che è già sufficiente a scardinare un considerevole numero di convenzioni appartenenti al sistema scolastico tradizionale.
Anche il termine “ripetizioni” può apparire inappropriato, o quantomeno incompleto, nel definire i contorni del knowledge sharing. In questo caso, infatti, non si tratta semplicemente di un processo didattico di natura puramente funzionale: in altre parole, non è detto che chi si approccia al knowledge sharing sia spinto dalla necessità di recuperare dei crediti scolastici o di acquisire delle nozioni richieste per contratto dall’azienda per cui lavora. Sempre più persone, infatti, si rivolgono alle piattaforme che fanno da collettori per questo tipo di servizi per soddisfare un desiderio di crescita culturale e personale spesso svincolato da motivi di ordine pratico. Come se l’amore per la conoscenza in quanto tale avesse trovato in questa modalità una valvola di sfogo a lungo negatagli.
La prima conseguenza tangibile di questo rinnovato interesse verso il sapere privo di un secondo fine, è rappresentata dall’innesco di un circolo virtuoso che induce a rivolgere tale desiderio di conoscenza verso le materie più disparate. Oppure verso un cluster di materie fra loro affini, ma che necessitano ciascuna di una preparazione specifica. Esempio di default: le lingue straniere. Sono nella condizione di dover migliorare il mio inglese? Mi rivolgo a un sito di knowledge sharing e, lungo una serie più o meno lunga di lezioni, provvedo. Ma una volta ottenuto tale risultato potrei avere voglia di replicare l’esperienza con un’altra lingua, ed ecco che inizio a prendere ripetizioni per – mettiamo il caso – imparare lo spagnolo. Di questo passo le lezioni si accumulano, le nozioni si stratificano, la mia capacità di immagazzinare informazioni si amplia grazie all’esercizio mentale costante cui mi sottopongo, e la mia curiosità cresce di pari passo. A guadagnarne non sarà soltanto il mio orizzonte lavorativo, ma anche quello sociale: più interessi ho, e più conoscenze paleso a riguardo, e maggiore sarà l’interesse che di riflesso susciterò negli altri, con un’accresciuta speranza di intercettare persone che condividono le mie stesse passioni.
I requisiti di un buon insegnante
Cosa serve per iscriversi a una piattaforma di knowledge sharing e proporsi per prestare la propria opera come insegnante? Apparentemente nulla, eccezion fatta per le normali credenziali necessarie alla registrazione di un qualunque sito Internet. È ovvio, tuttavia, che dovendo essere scelti dai clienti iscritti a loro volta al medesimo sito, prima di indurre questi ultimi a investire del denaro sulle nostre capacità di insegnamento dobbiamo convincerli che siamo davvero la scelta più giusta. In che modo?
Innanzitutto curando la nostra presentazione, sin nei minimi dettagli. Curriculum vitae, esperienze professionali, aspetti caratteriali e motivazionali, spiegazioni dettagliate su metodologie di insegnamento e schemi didattici. Un video di presentazione, che illustri le nostre capacità di esposizione di concetti e argomenti, risulterà ulteriormente esplicativo.
In seconda istanza, è opportuno, laddove non addirittura necessario, presentare delle certificazioni. Se mi propongo come insegnante di architettura, devo essere pronto a esibire una laurea, l’iscrizione all’albo e magari un portfolio di opere già realizzate, in modo da dare al cliente la possibilità di “pesare” la mia autorevolezza come docente sulla scorta di elementi concreti. Nella consapevolezza che esperti di determinate materie non ci si improvvisa dall’oggi al domani.
Infine, è necessaria chiarezza su ciò che si intende trasmettere. Non ha senso proporsi come detentore di uno scibile di conoscenza troppo grande per essere contenuto in un solo individuo. Meglio puntare sulla specializzazione, precisando contorni e confini delle proprie competenze. Se sono un insegnante di pianoforte jazz, non è opportuno che mi proponga per insegnare pianoforte classico: potrò guadagnare più studenti all’inizio, ma la mia reputazione scenderà rapidamente, non appena i miei allievi si accorgeranno che sulla medesima piattaforma esistono docenti specializzati esattamente su quello, e pertanto molto più preparati di me.
Perché puntare sul knowledge sharing
In conclusione, se utilizzato in maniera creativa e, al tempo stesso, responsabile, il knowledge sharing può rappresentare una fonte secondaria di entrate economiche di entità non indifferente. Inoltre, l’estrema flessibilità dell’impegno (sostanzialmente, si lavora quando e quanto si vuole, ancorché di concerto con gli orari della clientela) consente di non sacrificare nulla del proprio impiego principale.
Insomma, parliamo del secondo lavoro migliore tra quelli disponibili sulla piazza? Per i motivi sopraelencati sembrerebbe di sì. In realtà, come tutti gli impegni lavorativi – primari o secondari che siano -, anche il knowledge sharing richiede sacrificio e dedizione. A volte può metterci nelle condizioni di dover studiare sodo, vuoi per ripassare concetti un pò impolverati, vuoi per aggiornarci su elementi di novità introdotti dopo il conseguimento dei nostri titoli di studio. E alla fine, se il gioco sarà valso realmente la candela, sarà sempre la qualità del servizio offerto alla clientela a stabilirlo: l’unico elemento dirimente, in grado di determinare il successo o il fallimento di qualsiasi impresa.
Articolo sponsorizzato