“L’insegnamento è una professione usurante, soggetta ad una frequenza di patologie psichiatriche maggiore rispetto alle altre categorie della Pubblica amministrazione: svolgendo una professione altamente ripetitiva e alienante, i docenti sono infatti sottoposti a diversi stress di tipo professionale”. A ricordarlo è stata alcuni giorni fa l’associazione sindacale Anief, preoccupata per la salute dei docenti, a seguito dei risultati emersi da un ampiostudio commissionato dall’ente previdenziale INPDAP, che partendo dall’analisi degli accertamenti sanitari per l’inabilità al lavoro, ha operato un confronto tra insegnanti, impiegati, personale sanitario, operatori. Ebbene, quelli che operano dietro la cattedra hanno presentato una serie di condizionistressogene decisamente più alta.
I motivi sono molteplici. Vanno ricondotti al rapporto con gli studenti e i genitori, alle classi numerose, al precariato che si protrae per anni, alla conflittualità tra colleghi, alla costante delega da parte delle famiglie. Anche all’avvento dell’era informatica e delle nuove tecnologie, al continuo susseguirsi di riforme, alla retribuzione insoddisfacente. A pesare è anche la sempre più bassa considerazione da parte dell’opinione pubblica.
Per approfondire l’argomento, abbiamo intervistato Vittorio Lodolo D’Oria, medico ematologo, autore di molti studi sul burnout nella scuola e tra i massimi esperti in materia.
Dottore, quali novità ci sono sul fronte della prevenzione e della lotta delle malattie derivanti dallo stress da insegnamento?
Purtroppo non ci sono buone nuove. E questo procura rabbia, perché rispetto al passato oggi le norme per prevenire le malattie professionali esistono. A partire dal nuovo Testo unico dei lavoratori, l’articolo 28 del D. Lgs. 81/08, che dal 1° gennaio 2011 impone ad ogni datore di lavoro di adoperarsi, assieme agli organi di competenza, per predisporre un piano di studio e di azione per contrastare il crescente problema del burnout tra i docenti.
Forse non c’è sufficiente conoscenza?
Non direi. La passività delle nostre istituzioni coincide con la pubblicazione di una lunga serie di ricerche che indicano l’aumento esponenziale dei casi di malessere prodotti nell’ambiente scolastico. Anche il numero dei docenti inidonei è aumentato. Ma il Miur continua e non vedere e a non far nulla. E anche i sindacati non sembrano voler affrontare il problema.
Eppure, in base al decreto 81 del 2008, da lei citato, le scuole dovrebbero svolgere opera di ricognizione e prevenzione?
Proprio così. La normativa sulla materia prevede che il datore di lavoro è tenuto ad introdurre periodicamente delle misurazioni nell’ambiente di lavoro, al fine di individuare quali sono e in che misura incidono le attività sullo stress psicologico dei dipendenti.
Ma allora perché i dirigenti scolastici non si attivano?
Il motivo è legato al fatto che pochissimi istituti danno seguito alle disposizioni preventive. E chi lo fa, non di rado si muove pure male. Nel senso che spesso somministra questionari non tarati per gli insegnanti: uno di questi si chiama ‘Ispesl’ e tra le domande inappropriate per la categoria ve ne è una che indaga su come si trova il lavoratore ad operare con il muletto. Un’altra domanda, del tutto fuori luogo, è quella che va a indagare sulle turnazioni notturne. Ora, nelle scuole ci possono essere anche essere laboratori e scuole serali, però parlare di certe macchinari del genere e lavori notturno è davvero troppo.
Però quelle domande sono state somministrate…
Evidentemente i dirigenti scolastici vivono la prevenzione delle malattie e degli infortuni come una pratica da sbrigare. Sono i primi a non avere coscienza del fatto che oggi nella scuola il numero di insegnanti con problemi o disturbi mentali sono tantissimi ed in incremento.
Ci può indicare qualche dato?
Rispetto a pochi anni fa, a livello nazionale i casi sono triplicati: oggi ad ammettere di essere stressato per il lavoro ripetitivo e logorante è quasi l’80 per cento di chi lavora dietro la cattedra. Poi ci sono le vere e proprie patologie. E anche in questo caso non c’è da sottovalutare la situazione. Perché dalle ultime rilevazioni risultano almeno 24mila psicotici e 120mila depressi nella categoria. Infine, ci sono tutte le altre malattie della psiche più lievi ma non per questo da trascurare, come i disturbi dell’adattamento e di personalità.
Ma se aumentano i casi di patologie da lavoro non è solo colpa dei dirigenti scolastici?
Certamente che no. Basta dire che ancora oggi in Italia per le attività di prevenzione delle malattie correlate allo stress da insegnamento nella scuola non sono finanziate. Non si spende nemmeno un euro. E questa competenza è dell’amministrazione centrale.
Nell’allargamento del disagio dei docenti, da lei ben illustrato non troppo tempo fa col libro ‘Pazzi per la scuola’, ha attribuito i demeriti anche alle leggi approvate ‘al contrario’…
Sicuramente a complicare la situazione hanno collaborato non poco le riforme pensionistiche, che hanno portato le donne a lasciare il lavoro quasi dieci anni dopo rispetto a qualche tempo fa. Di certo, la prospettiva di andare in pensione a 66-67 anni non aiuta. La riforma Fornero, ad esempio, ha colpito in modo particolare le donne, uniformando i loro requisiti a quelli degli uomini. Dimenticando che le donne hanno quasi sempre una storia di vita più faticosa. E dopo la menopausa sono soggette a più malesseri.
Vuole dire che dopo una certa età le donne diventano più vulnerabili degli uomini?
In un certo senso, sì. Prima di tutto perché in assoluto sono più esposte a situazioni di empatia nei rapporti con gli alunni e con i colleghi di lavoro. In secondo luogo perché sono fisiologicamente più soggette al ‘logorio’ professionale, in particolare dopo la menopausa. E infine perché le statistiche ci dicono che nelle donne dopo i 50 anni si riscontra una maggiore presenza di gravi patologie psichiatriche o di forme tumorali, associabile in modo, anche diretto, all’immunodepressione da stress cronico.
Ma questi dati sono pubblici?
Certo che sono pubblici. Non si comprende perché non siano stati presi in considerazione dal legislatore delle riforma delle pensioni. E vengono tirati fuori solo quando ipocritamente ci scandalizziamo perché la maestra esasperata urla troppo o usa violenza contro i suoi alunni.
Ma un docente italiano con problemi derivanti dal burnout da chi viene valutato?
Da una commissione medica di verifica. Quella che valuta tutti i generi di danni professionali al lavoratore.
Quindi sono anche altre le patologie che colpiscono i docenti?
Sì, ma in larghissima parte si riconducono tutte alla sfera emotiva, psicologica, psichiatrica. Anche se non sono state svolte indagini nazionali, sono comunque più che indicativi i dati raccolti pochi anni fa a Torino, Verona e Milano: in quell’occasione, il 70-80 per cento degli accertamenti medici tra i docenti si conclude con una diagnosi psichiatrica.
Dottore, ce lo dica francamente: c’è una via di uscita?
Purtroppo la verità è che senza una vera spinta culturale e politica che inciti ad affrontare la problematica, non se ne esce.
Eppure in altri Paesi a noi ‘vicini’ le cose vanno meglio?
Direi proprio di sì. Dovremmo prendere esempio dall’Inghilterra, dove ogni docente ha a disposizione un medico di base e psichiatrico a cui rivolgersi per problematiche professionali e personali. Oppure dalla Francia, dove il danno derivante da stress correlato alla professione è riconosciuto a tutti gli effetti. Mentre in Italia, se va bene, ai docenti si chiede come sanno manovrare il muletto…