Home Personale L’Amministrazione digitale che non sa neppure di avere dipendenti pedofili

L’Amministrazione digitale che non sa neppure di avere dipendenti pedofili

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Il caso del bidello condannato per abusi sessuali su minori commessi in una scuola primaria di Roma rischia di mettere un po’ in ridicolo lo straordinario piano di digitalizzazione e dematerializzazione di cui si favoleggia.
I fatti sono abbastanza semplici, ma inquietanti: un collaboratore scolastico, condannato nel 1999 per abusi sessuali (commessi peraltro nel 1991) con la pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici, riesce comunque, qualche anno dopo, a lavorare ancora perché autocertifica di non aver mai subito condanne penali.
I controlli sulle autocertificazioni sono fatti a campione e quindi per il collaboratore fila tutto liscio.
Ed è qui che vengono in mente i telefilm americani dove l’investigatore di turno premendo due tasti scopre all’istante vita, morte e miracoli dell’indagato, dai suoi precedenti con la giustizia fino al numero di multe collezionate. Quelli sono film, è vero, ma è mai possibile che nel nostro Paese una condanna per abusi sessuali su minori con interdizione dai pubblici uffici non venga adeguatamente segnalata al Ministero dell’Istruzione e ai suoi uffici periferici? E pensare che basterebbe proprio poco: sarebbe sufficiente creare una banalissima “black list” nazionale e disporre l’obbligo per tutti gli uffici di controllare la lista prima di stipulare qualunque contratto (con un semplice software il controllo manuale potrebbe persino essere eliminato).
E invece no, perché al Ministero sono impegnati, anzi impegnatissimi a gingillarsi con gli obblighi delle “stazioni appaltanti” (le scuole che sottoscrivono appalti sono pochissime, ma in compenso tutte devono mettere nel proprio sito una pagina dedicata all’argomento) e altre quisquilie del genere che fanno solo perdere tempo alle segreterie delle scuole.
I segretari delle scuole devono stare attenti a tenere sotto controllo il cosiddetto “fondo per le minute spese” (in genere 3-400 euro all’anno) sul quale spesso i revisori dei conti “fanno le pulci” con il risultato di non avere il tempo per controllare i documenti dei precari con cui si stipulano i contratti.
Insomma, come sempre le cose vanno alla rovescia: si dedicano tempo, risorse ed energie per i problemini e ci si occupa molto poco dei problemi seri e gravi che, oltretutto, non mettono in buona luce la scuola statale.
D’altronde che l’Amministrazione scolastica, almeno in questo caso, si sia comportata un po’ da facilona è dimostrato dal fatto che, proprio per questi mancati (o troppo labili) controlli, la magistratura abbia già imposto allo Stato la liquidazione di una provvisionale di 20mila euro alla famiglia del bambino oggetto della malsane attenzioni del collaboratore.
Ma c’è ancora un altro problema. E’ bene sapere che le norme contrattuali in vigore non consentono più all’Amministrazione di sospendere cautelarmente un dipendente Ata sul quale la magistratura sta indagando.
La sospensione può essere attivata solo nel momento del rinvio a giudizio. Con il risultato che dipendenti indagati per spaccio di droga dentro i locali scolastici e per abusi sessuali su minori possono continuare a lavorare pressoché indisturbati almeno fino a quando non c’è il rinvio.
Del tutto diverse sono invece le disposizioni per i docenti, per i quali resta in vigore la possibilità di essere sospesi cautelarmente fin dall’avvio delle indagini.