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L’infanzia è una scoperta dell’Ottocento

Fu l’ottocento a scoprire l’infanzia e Charles Dickens a raccontarla per primo nei suoi romanzi degli anni della rivoluzione industriale inglese: Davide Copperfield e di Oliver Twist

Il mondo di Dickens, pur feroce, è sulla via della civilizzazione e non è così bestiale da obbligare i bambini a dimenticare l’infanzia per sopravvivere. Anzi, permette loro di ricordarla e descriverla, come fa Dickens. Solo nella modernità per la prima volta l’infanzia è una condizione di debolezza tollerabile, mentre nel  mondo antico tutti sembrano dimenticarsi di un’infanzia presumibilmente terribile, di cui nulla sappiamo perché nessuno ne parla mai per tutta la letteratura classica, greca e romana.

Qualcosa, scrive Linkiesta.it, intravediamo nei bassifondi del Satyricon di Petronio, ma il suo sguardo non riesce a vedere e a dirci nulla di umano in questo piccolo schiavo dimenticato dal mondo e dalla storia. Tuttavia quel bambino del Satyricon soffrì le sofferenze di mille Davide Copperfield che nessun Dickens raccontò.

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Uno schiavo non ha senno, dice il guardiano dei porci Eumeo nell’Odissea. Omero per un attimo ci fa intravedere l’abisso di un individuo che dice con una punta di amarezza e rammarico “uno schiavo non ha senno”. È solo un attimo. Omero, preso dai suoi dei e dai suoi eroi non vede la tragedia di questo bambino rapito ai suoi affetti e venduto schiavo.

Un bambino nei tempi pre-moderni era un nulla, una non entità umana e giuridica. Il capo famiglia, il pater familias aveva totale diritto di vita e di morte sui figli, e le feroci leggi anti parricide dell’antica Roma testimoniamo il tentativo continuo di contenere fosche tragedie familiari, rancori di figli covati probabilmente fin dall’infanzia. In tutta la letteratura classica solo Orazio, che si lamenta delle punizioni corporali del suo maestro di scuola, riesce a posare il suo sguardo su un ricordo precedente la vita adulta. E il destino dei bambini continuò per secoli a essere terribile, come possiamo vedere nelle favole. Il racconto dei genitori di Pollicino che abbandonano tranquillamente la prole nel bosco non potendo sfamarla ci parla di un comportamento non raro in quei tempi.

Ci si chiede come possa essere stato possibile che per secoli nessuno abbia mai raccontato nulla della propria infanzia con l’occhio moderno, incuriosito e introspettivo. Non vi erano le parole, non vi erano i pensieri, rimanevano solo i ricordi mai raccontati.

In Italia Collodi col suo burattino di legno che lentamente prende vita e si umanizza sembra quasi raccontare la storia della trasformazione della percezione dell’infanzia, che passa dal legno alla carne. E pensieri di bambini racconta Collodi, forse ancor più di Dickens: storie di compiti a scuola da fare, storie di giornate a scuola marinate, storie di litigi e botte con i compagni di classe, storie di giornate passate a letto con la febbre mentre i dottori vengono a visitarti, storie di mamma e papà, Geppetto e la Fata Turchina, storie di amici fin troppo intraprendenti che ti fanno intravedere il mondo adulto come Lucignolo. Storie di bambini, storie infantili.

Pochi anni dopo sarebbe arrivata la psicologia, dapprima la psicoanalisi con il piccolo Hans e Freud, poi con gli abissi di rabbia e invidia di Melanie Klein e poi tutta la psicologia dello sviluppo e dell’attaccamento con Donald Winnicot e John Bowlby a raccontarci tutto in maniera più scientifica. Ma furono Dickens e Collodi ad aprirci gli occhi. Da poco tempo ci siamo ricordati che siamo stati fanciulli.

Pasquale Almirante

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