Innanzitutto, una premessa. Come ricorda il Prof. Tullio De Mauro in un recente articolo per Il Mulino, l’Italia si differenzia da altri Paesi democraticamente più evoluti anche sotto l’aspetto della gestione dell’apparato formativo: non soltanto questo non è considerato un problema centrale per le politiche dei suoi governi, ma rimane anche di competenza ministeriale, mentre negli Stati Uniti, in Germania, Francia ecc. è il capo di Stato in persona a occuparsene.
In Francia, ad esempio, il ministro della Pubblica Istruzione ha una funzione esecutiva, ma solo di implementazione di una politica che è quella di Hollande.
Dai tempi di Giolitti, in Italia, non abbiamo qualcosa di simile.
Secondo punto: innumerevoli e rigorose statistiche, riportate anche dagli economisti, dimostrano una correlazione tra livello di istruzione (e competenze linguistiche in particolare!) di una popolazione e delle sue élite e sviluppo o mancato sviluppo dell’economia.
Introducendo nei test di valutazione di comprensione generale a vari livelli, anche criteri di ‘problem solving’, cioè di capacità di uso delle capacità alfanumeriche dinanzi a problemi inediti, un dato clamoroso emerge: solo il 20% della popolazione italiana adulta è in grado di orientarsi nella società contemporanea!
Il tema della formazione dovrebbe tornare centrale nelle agende dei candidati al governo della Regione e del Paese: e a chiunque voglia tentare di avanzare una proposta credibile e compatibile con bilanci e risorse, consiglio la preventiva lettura di un agile libretto,
intitolato “I numeri da cambiare. Scuola, università e ricerca: l’Italia nel confronto internazionale”, pubblicato dall’Associazione Trelle e dalla Fondazione Rocca.
Un libro di poche parole e tanti numeri e tabelle, basato su 132 indicatori che mostrano dove si colloca la scuola italiana nei confronti dei Paesi con i quali dobbiamo competere.
Fare per feramare il declino
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