Oggi sono andato a scuola e ho fatto la mia normale lezione. Sono entrato nella classe quinta della scuola primaria dove sono titolare e ho svolto le attività di matematica e di scienze che avevo programmato da tempo. Per farlo ho dovuto comunicare alla mia dirigente che non avrei somministrato le prove Invalsi. Ho deciso cioè di fare obiezione di coscienza, di disobbedire a chi mi ordinava di sospendere la mia funzione di maestro e di divenire il burocrate somministratore di quiz per conto di un’istituzione esterna al Ministero.
Ciò non sarebbe avvenuto se il ministero avesse mantenuto le date programmate per lo svolgimento delle prove, perché avrei avuto a disposizione lo strumento costituzionalmente garantito dello sciopero per esprimere il mio dissenso. Invece il recentissimo spostamento del calendario deciso unilateralmente dall’Invalsi mi ha posto di fronte alla scelta tra tradire le mie convinzioni oppure tenervi fede pagando un prezzo. Ho scelto la seconda strada.
Non ho “somministrato” i test perché li ritengo una intromissione dirompente e dannosa nella mia didattica e nella didattica dei docenti italiani; perché ritengo che i quiz Invalsi non abbiano alcun elemento di scientificità sia per la somministrazione censuaria (risibile in termini statistici), sia per i contenuti che intendono misurare che sono o riduttivi o confusi (non possono che fermarsi alla superficie dei processi di apprendimento). Non ho “somministrato” perché le modalità di “somministrazione” che vengono richieste contraddicono i principi di inclusione, di cooperazione, di eguaglianza, di rispetto per i tempi di ogni bambina o bambino, principi che invece stanno alla base della mia attività didattica in classe.
Per affermare queste mie convinzioni ho dovuto disobbedire. Ma credo che l’obbedienza – in alcuni casi – non sia una virtù.
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