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L’unico merito del ministro è quello di tentare di ricompattare i sindacati

E infatti un merito glielo riconosciamo: avere posto le basi per l’unità sindacale che il governo precedente per una serie di motivi aveva contribuito a spaccare. Di fronte a questa nuova proposta di legge del Governo sulla stabilità finanziaria a carico della scuola, insieme alla negazione degli scatti di anzianità e al rinvio al 2014 della nuova contrattazione, i sindacati hanno forse capito che non si può più andare a ranghi scomposti ma che occorre unità e compattezza di intenti, anche perché non c’è più nulla da prendere né da commentare, ne da mediare.
Per tutto il resto non pare che il ministro dell’Istruzione ne abbia azzeccata una, neanche l’assicurazione, fatta a una precisa nostra domanda quando venne a Catania nella primavera scorsa, che la scuola non avrebbe più subito tagli.
Dai concorsi a cattedra, alla spending review, dagli scatti di anzianità a quest’ultima stangata non c’è stato un solo intervento favorevole alla scuola e da ogni parte, dai precari al personale di ruolo, dagli Ata ai supplenti temporanei il coro di dissenso è unanime.
Eppure di fronte a tante calamità innaturali scagliate contro la scuola e l’istruzione il ministro ha preferito spendere qualche milione di euro per un concorso ritenuto da tutti inutile e dannoso, compreso quello a dirigente scolastico che sta subendo i dardi e le ingiurie del dimensionamento delle scuole, mentre fa spallucce di fronte a un manipolo di appena 3500 lavoratori della scuola che vorrebbero andare in pensione.
Ma non solo questo, perfino gli studenti universitari sono indignati e pure tra gli atenei si respira aria di dissenso. Eppure le speranze al suo apparire furono molte, considerata la provenienza accademica e la conoscenza del mondo della scuola, almeno per tramite dei suoi più stretti parenti.
Oggi serpeggia delusione e amarezza, ma soprattutto indignazione e rabbia, anche perché, al di là del decreto Brunetta che ridisegnò la contrattazione sindacale, è più che evidente il disconoscimento di un diritto, quello all’orario di lavoro che non può definire il datore di lavoro senza interpellare i diretti interessati.
Può infatti un imprenditore con circa 800mila impiegati dall’oggi al domani imporre un orario di lavoro secondo i suoi bisogni senza prima consultarsi con la rappresentanza dei lavoratori stessi? Durante la rivoluzione industriale della metà del 700 era possibile, ma poi ci fu più di una stagione di lotte e di scioperi per conquistare il diritto al riposo e al tempo libero. Nel terzo millennio a quanto pare invece di progredire nelle garanzie e nei diritti torniamo a un nuovo feudalesimo, intercettato già preso alcune fabbriche, e ora visibile in quella che si vuole trasformare in catena di montaggio all’interno dell’istruzione pubblica.

Pasquale Almirante

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