Home Politica scolastica L’Unicobas sostiene (convintamente, ma criticamente) la LIP

L’Unicobas sostiene (convintamente, ma criticamente) la LIP

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Una ‘Buona Scuola’ non può prescindere da alcuni punti essenziali:

 

1) la Scuola dell’Infanzia statale non ha in Italia diffusione adeguata ed è impensabile che tante aree geografiche (anche metropolitane) vengano ‘coperte’ in regime di monopolio da ‘materne’ private. Perciò, nonché per la rilevanza educativa che essa ricopre, l’ultimo anno di scuola dell’Infanzia va reso obbligatorio;

2) l’obbligo italiano è (con l’Irlanda) il più basso della UE, e va elevato ben oltre gli attuali 9 anni (l’ultimo dei quali, nato come anno di parcheggio, oggi viene destinato al mero apprendistato);

3) la figura del ‘dirigente’ (introdotta nel 2000 in luogo del preside sotto le mentite spoglie della ‘autonomia’) è di stampo aziendalista, ed ha nulla a che fare con una comunità educante e con gli organi decisionali democratici a responsabilità collettiva presenti nella scuola;

4) le scuole private devono venire finanziate solo da fondi privati, come prevede la Costituzione, mentre negli istituti pubblici deve sparire la vergogna del cd. ‘contributo volontario’ imposto agli studenti ed alle famiglie per garantire le esigenze scolastiche minime a fronte di uno stato che ritrae il proprio impegno economico e risulta ultimo nella UE in ordine alla percentuale di PIL destinato ad istruzione, università e ricerca. Questi punti qualificanti, ignorati da ogni ministro giunto al dicastero di Viale Trastevere e (paradossalmente) da ogni ‘riformatore’ istituzionale, non sono contenuti nel piano Renzi, bensì nella Legge di Iniziativa Popolare sostenuta dalla base della scuola italiana ed oggi da un numero sempre crescente di parlamentari. Per questi motivi l’Unicobas sostiene convintamente questo disegno di legge.

 

Tuttavia i mali della scuola italiana hanno anche altre cause: in particolare occorre ripristinare uno stato giuridico adeguato per il personale docente ed Ata. Con il D.L.vo 29/93 il governo Amato, col placet di parte del mondo sindacale, privatizzò il rapporto di lavoro della Scuola (ma non dell’Università, dei magistrati, dell’esercito, della sicurezza). Questo fu il primo passo dell’impiegatizzazione del corpo docente. Da allora non esiste più il ruolo, bensì l’incarico a tempo indeterminato (tipico un tempo del supplente annuale), o a tempo determinato per i precari. La definizione del ruolo, per una categoria non ascrivibile al lavoro subordinato, fungeva da ‘scudo’ a garanzia dell’autonomia della funzione docente e del rispetto del dettato costituzionale sulla libertà di insegnamento, tipico di una funzione professionale (valutabile, in caso di controversie, solo da chi ha competenze per farlo com’erano i consigli di disciplina elettivi previsti dai Decreti Delegati ed aboliti nel 2008 da Brunetta). L’eliminazione del ruolo, e la contestuale trasformazione del preside in ‘datore di lavoro’, annunciava già nel 1993 la figura del ‘dirigente’. Il dirigente, introdotto con la cosiddetta ‘autonomia’ nel 2000, è diventato quindi l’arbitro assoluto di ogni controversia disciplinare, insieme alle burocrazie dell’Ufficio Scolastico Provinciale. Essi decidono ‘inaudita altera parte’. Infine, come avrebbe voluto la Aprea con il suo ddl, ma anche Renzi e la Giannini oggi, il dirigente potrà diventare, proprio perché dal 1993 è ‘datore di lavoro’, anche l’arbitro delle titolarità (vd. organico ‘funzionale’), se non delle assunzioni, scuola per scuola senza, controllo pubblico ed il ‘valutatore’ delle ‘performance di qualità’ (cosa che non avviene in nessun paese del mondo, neppure ove il sistema di valutazione è organizzato dall’alto, come in Francia, perché il ruolo di verifica non può essere affidato a figure che non siano ‘terze’, come, nel caso di specie, gli ispettori ministeriali.

Una controparte cieca ed incapace persegue lo smantellamento di quel che resta degli organi collegiali: collegio docenti (che si vorrebbe solo consultivo) e consiglio di istituto (da trasformare in ‘consiglio di amministrazione’ di scuole-fondazioni). Grazie alla cd. ‘autonomia’ i consigli scolastici provinciali non esistono più dal 2000 e gli insegnanti non eleggono più il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione dal 1997: se avessero tolto organismi di tale importanza a qualsiasi altra categoria professionale ci sarebbe stata un’insurrezione, mentre noi abbiamo avuto persino un ministro che intendeva ‘valutarci’ a quiz, come poi imposto agli studenti con il dozzinale metodo Invalsi.

 

Dulcis in fundo, la vexata quaestio degli automatismi d’anzianità.

Il D.L.vo 29/93 li cancella del tutto. Per noi è stato seguito un ‘percorso a tempo’: il ‘congelamento’ non è che l’anticamera dell’eliminazione pressoché totale degli scatti. Erano biennali e sono stati trasformati in 6 ‘gradoni’: il primo di 3 anni, i successivi tre di 6 anni e gli ultimi due di 7. Anche senza alcun rinnovo contrattuale, oggi avremmo una retribuzione molto più alta se avessimo conservato quegli scatti. S’è detto che con gli aumenti d’anzianità (che invece hanno conservato i docenti universitari, i magistrati ed i militari di carriera) ‘sarebbero andati avanti tutti, anche i cialtroni’. Però persino la Svizzera, paese ‘meritocratico’-liberista per eccellenza, che non prevede automatismi d’anzianità per nessuno, li conserva SOLO per gli insegnanti (e sono annuali), perché in tutto il mondo si sa che ad insegnare si impara soprattutto insegnando.

Chi ha firmato i contratti dal 1995 ad oggi, condividendo regole del genere, ha contribuito pesantemente a portare la scuola nel calderone indistinto del pubblico impiego, all’interno del quale vige il diktat che gli ‘aumenti’ non possano superare l’inflazione programmata dalla parte datoriale (Ministro dell’economia). Per questo, col passaggio dalla lira all’euro, avemmo un rinnovo del 2% a fronte del dato Istat al 6% e di un aumento dei prezzi al consumo pari al 50%. Per questo, dal 1995 abbiamo contratti sempre sotto l’inflazione dichiarata (dato Istat) e reale (incremento vero del costo della vita) e non potremo MAI neppure avvicinarci alla media retributiva europea, ove siamo (tenendo presente anche la diversità dei costi standard) all’ultimo posto, persino sotto Grecia e Portogallo. O si esce dal pubblico impiego e dal campo di vigenza del D.L.vo 29/1993, come l’Unicobas vuole da anni, o risulta PERSINO RIDICOLO parlare di stipendi (…europei).

Per le ragioni su addotte, l’Unicobas vuole un contratto specifico per tutta la scuola fuori dall’area del pubblico impiego (dove non è prevista certo la ‘libertà di impiegamento’ e dove non esistono le responsabilità penali che gravano su chi a che fare con minori) e l’istituzione di un Consiglio Superiore della Docenza (con diramazioni provinciali), adibito a garantire, così come per la Magistratura, l’autonomia e la terzietà della Scuola pubblica. Senza tutto ciò la privatizzazione della scuola e la sua subordinazione alle caste della politica ed agli interessi economici di parte, è sicura. Per tutta la scuola, docenti ed Ata, dal momento che anche un collaboratore scolastico ha competenze di vigilanza che un usciere del ministero non ha, dal momento che gli assistenti tecnici hanno competenze di coadiuzione educativa e gli amministrativi firmano bilanci di milioni che ovunque (anche nel sistema privato) darebbero luogo a retribuzioni ben più alte. Questa nostra posizione la mettiamo a confronto con gli estensori della Legge di Iniziativa popolare, formulando la proposta di un emendamento in tal senso.