Diamo una sintesi dell’articolo di Giovanni Cominelli
“Non ha senso discutere/sperimentare solo relativamente alla durata del quinquennio superiore senza coinvolgere tutto l’ordinamento, in particolare la scuola media. Rinchiusa la sperimentazione nei quattro anni di liceo, è difficile sfuggire ad alcune obiezioni, che contestano con buoni argomenti l’eterno ritorno nonché l’opacità delle sperimentazioni, la perdita secca di un anno di istruzione superiore, il richiamo solo parzialmente pertinente all’Europa.
Dunque, è l’intero segmento superiore che va riorganizzato, perché è la fine del ciclo 03-10 anni il punto di partenza di un nuovo ciclo esistenziale. Luigi Berlinguer aveva risolto la questione con la proposta del 7+5 (legge 30 dell’8 marzo 2000). La scuola di base si allungava di due anni, saltava la scuola media, il ciclo superiore recuperava l’ultimo anno di scuola media, conservava i cinque anni, ma si usciva a 18 anni. Generava, nell’immediato, l’inconveniente dell’onda anomala (risolvibile in un anno) ma questo fu l’argomento principale usato dagli oppositori al governo e all’opposizione.
In realtà, non erano mossi da interessi pedagogico-didattici, bensì da quello delle cattedre che si perdevano e quello della crisi di ruolo che investiva gli insegnanti provenienti dalla scuola media, essendo i due terzi “degradati” verso il ciclo di base, un terzo scaraventati sul livello superiore. Il centro-destra cavalcò la protesta, ma fu il fuoco amico (?!) a far cadere il ministro e D’Alema. I sindacati, infatti, erano tutti “uniti nella lotta” per la difesa dei posti di lavoro. Che la scuola media fosse − e sia − divenuta il buco nero del sistema e la base di innesco del processo di disorientamento e di dispersione, che raggiunge l’acme nei primi anni delle superiori, a loro non interessava e continua ostinatamente a non interessare.
Beninteso, l’uscita a 18 anni non è un dogma. Ma quello della corrispondenza tra curriculum e biografia individuale sì! Mentre il nostro sistema di istruzione tratta i già-adolescenti come ancora-bambini fino ai 14 anni e tratta i già-giovani come ancora-adolescenti fino a 19 anni.
In realtà, decenni di elaborazioni, di esperienze nazionali e internazionali e, soprattutto, di politiche confermano che il principio di riorganizzazione e di ripensamento degli ordinamenti è un curriculum fondato sulle competenze-chiave, sui piani di studio personalizzati, sul laboratorium invece che sull’auditorium, sull’organizzazione dell’edilizia scolastica e degli spazi fisici, che non costringa nei banchi degli undicenni i giovani di 19 anni.
La sperimentazione della Carrozza ha il merito di riaprire il discorso su tutto ciò. Nulla di più. Perché, ad un occhio smaliziato la sperimentazione autorizzata potrebbe anche apparire come un ennesimo rinvio e una fuga per i campi, vista la mancanza di volontà politica dei governi passati e di questo governo di camminare sulla strada maestra delle riforme volte a mettere in asse il sistema di istruzione con le biografie individuali dei ragazzi. Tuttavia sarebbe ingeneroso imputare alla sola Carrozza un blocco delle riforme che invece è l’effetto del reciproco assedio di forze politiche, che, governando insieme, impediscono, ciascuna all’altra, di “ferire” con riforme radicali il proprio elettorato.
Perciò, limitiamoci a prendere sul serio il tentativo, affinché la sperimentazione sia rigorosa, pubblicamente trasparente e, soprattutto, se ne tragga un bilancio coram omnibus. La discussione che la sperimentazione ha provocato può contribuire a illuminare la “metafisica occulta” e trasversale della cultura politica conservatrice, che è egemone nella scuola, che si esprime in un assioma elementare: bisogna cambiare i ragazzi, non il sistema; i ragazzi si devono adattare alle domande vincolanti del sistema. Contano le cattedre, i posti di lavoro, gli orari, tanto a settimana, il tutto rigidamente immobilizzato da leggi e contratti-leggi. Questa la costante, i ragazzi sono la variabile. Peggio per loro!
Ed è il peggio che, appunto, sta già accadendo. C’è da scommettere che nessuna forza politica e sindacale si riconosca in questo giudizio. Eppure, vent’anni di seconda Repubblica confermano che solo quel presupposto è in grado spiegare razionalmente l’immobilità delle politiche e il declino del sistema di istruzione. E l’eterno movimento delle parole dei dibattiti, dei talk-show, dei programmi elettorali, dei disegni di legge e dei decreti legislativi?