Insegnare non è affatto facile. Pensare che affrontare la professione dell’insegnante sia difficile, soltanto per il percorso formativo che conduce un laureato ad abilitarsi all’insegnamento e poi a superare un concorso, significa banalizzare il concetto di questa delicatissima professione sociale. Insegnare significa molto di più che riuscire a superare le selezioni di un TFA, le varie prove scritte e orali e poi anche un concorso.
Insegnare significa principalmente sapere trasmettere le competenze specifiche, acquisite nel proprio corso di studi e permanentemente aggiornarle. Se non si comprende questo semplice concetto, non esisterà mai una buona scuola, ma avremo al contrario una pessima scuola. È utile ricordare che il termine scuola deriva dal verbo greco scholazein che significa avere tempo di occuparsi di una cosa per divertimento. Quindi è semplicissimo comprendere, ed è scritto nello stesso etimo della parola scuola, che insegnanti e discenti occupano il loro tempo a studiare con piacere. Il piacere dell’apprendimento risiede principalmente nella capacità comunicativa dell’insegnante, che riesce a tramettere, con semplicità, conoscenze e competenze anche complesse. In buona sostanza per avere una buona scuola, c’è bisogno della figura di un docente esperto della sua disciplina e specializzato nella comunicazione e trasmissione del sapere specifico. Una figura in grado di rendere semplice e piacevole ciò che semplice non è.
L’idea singolare e miope di chi sostiene che tutti possono insegnare tutto e possono svolgere contemporaneamente all’insegnamento altre mansioni, non serve assolutamente a migliorare il livello della didattica nella scuola pubblica italiana, ma al contrario crea grossi problemi per l’apprendimento dei nostri ragazzi. È un’idea, che troppo spesso viene imposta per ragioni economiche e in nome della flessibilità, ma determina pessima qualità didattica e quindi una cattiva scuola.
Docenti in esubero che vengono dirottati in altri classi di concorso o anche in altri ordini di scuola, non sono un esempio di buona scuola. Insegnanti riconvertiti ad altri insegnamenti con corsetti di 200 ore che si trovano ad insegnare nell’età della vecchiaia, quello che non hanno mai insegnato, non è un esempio di buona scuola. Per non parlare del disastro delle classi di concorso atipiche dove al bisogno si utilizzano i docenti, per insegnare quando una materia, quando un’altra più o meno affine. La buona scuola la fanno i bravi insegnanti che hanno costruito la loro figura professionale sulla specificità dei loro insegnamenti e sull’abilità comunicativa. L’insegnante che conosce la propria disciplina, ma non la sa trasmettere, per evidenti limiti comunicativi, non fa bene alla scuola, vista come luogo di apprendimento piacevole. In quel caso si fa una cattiva scuola. Allora quali potrebbero essere le soluzioni di una giusta riforma, fatta per una buona scuola? Smetterla di caricare di compiti aggiuntivi gli insegnanti, come se fossero onniscienti ed in grado di svolgere ogni compito contemporaneamente. Dividere le carriere di chi lavora a scuola, in carriera d’insegnamento per coloro che hanno il dono di essere bravi insegnanti ed eccellenti comunicatori e in carriera dell’organizzazione del lavoro, per coloro che amano di più gli aspetti burocratici.
Non è possibile avere docenti che contemporaneamente ti fanno l’orario scolastico, la funzione strumentale, il docente a tempo pieno nelle classi. Forse dovrebbe sorgere il sospetto che chi pensa di riuscire a fare tutto, poi rischia di svolgere qualcosa in malo modo. Eliminare le classi di concorso atipiche e introdurre le specificità degli insegnamenti, sburocratizzare i compiti degli insegnanti, e fare formazione sugli aspetti della comunicazione. Un’idea questa che restituirebbe ordine in un sistema che è fuori controllo, dove ci sono poche risorse economiche e caricate tutte sulle spalle di una parte ristretta di docenti, quella più obbediente al dirigente scolastico, uno spreco di risorse umane che andrebbero meglio gestite e ovviamente meglio pagate.
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