La competenza non è oggi di moda. Perché le conoscenze sono solo opinioni soggettive, e non possono mai tradursi quindi in competenze, cioè nel saper fare. Dal sapere al saper fare.
A meno, però, di bisogni ed urgenze effettive: di uno specialista, di un tecnico, di una persona qualificata. Questa la situazione che ci troviamo oggi.
Penso qui, per, limitarmi a due casi, a Grillo che vorrebbe scegliere i deputati col pallottoliere, ed alla polemica sui vaccini, dove ognuno pensa di avere la verità in tasca. Ma penso, nel mondo a me più vicino, ai nuovi presidi preselezionati con test ipernozionistici, o al “concorso non selettivo” (un non-senso) previsto per le maestre diplomate ma non laureate.
Nel mondo della scuola, per capirci, negli ultimi dieci anni si è cercato in modo graduale di introdurre il concetto di competenza, per far comprendere che le conoscenze da sole, pur necessarie, non sono sufficienti per un adeguato percorso formativo. Nell’attuale revival, invece, tutto dovrebbe essere rigettato, buttato a mare, rifiutato.
Per quale motivo? Se uno vale uno, anche se, lo sappiamo, solo a parole, nessuno dovrebbe assumersi la responsabilità di dire dei si e dei no. Tutti dovrebbero poter tutto: ecco il mito della “democrazia diretta”, favorita dai social, con i leoni da tastiera a farla da padrone.
Perché mito? Perché il sapere non è mai immediato, ma richiede un percorso di ricerca, di riconoscimento, di rimessa in discussione, di nuova ricerca. Anzi, la pretesa di immediatezza, in realtà, è solo maschera della violenza. Basta leggere certi post, certi giornali, certe sparate. Ma la vita ci dice altro.
Quando avvertiamo un problema, cosa facciamo? Cerchiamo lo “specialista”, cioè il competente.
A scuola, il nesso tra sapere e saper fare lo perseguiamo quando non ci accontentiamo, nelle valutazione, della ripetizione mnemonica, ma chiediamo anche la comprensione e, meglio ancora, la rielaborazione.
Forse, un po’ di umiltà, a tutti, non farebbe male.
Perché è l’umiltà il primo requisito di chi si mette sulla via della ricerca, sapendo che, dialogando, poi, è più facile questa stessa via, con continue domande e risposte.
Affidandosi, dunque, all’intelligenza, la quale ad un certo punto, come luce che illumina, ripeteva Platone nella sua Lettera VII, si apre, senza pretesa di esclusiva, al vero, al buono, al bello, al giusto. Che il nostro tempo sia, invece, figlio di un dominante “pensiero negativo”?
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