Tutto è cominciato con un pallone venuto dalla spiaggia e rimbalzato sulla pista pedonale, dove camminavo. Lo vedevo rotolare e sentivo dalla spiaggia i ragazzi che gridavano: Pallaaa, pallaaa… Ma io quella palla non l’ho raccolta e se mi chiedete il perché, sono costretto a confessarvi la verità. Perché ritengo che il calcio sia immeritatamente un mito nazionale, a fronte di valori ben più importanti.
Perché quei ragazzi non usavano il mio linguaggio: “scusi, per favore …”. Magari, però, mi avrebbero ringraziato dopo. Perché essendo un uomo di riflessione, e anche vecchio, la gente troppo vitale, sotto il sole, probabilmente, mi dà fastidio.
Quei poveretti ci sono rimasti male e, mentre me ne andavo, mi hanno spedito, alle spalle, qualche aggettivo particolare. Quale? Non lo so perché ero troppo lontano e il solleone attutiva le voci. A questo punto, però, sono rientrato in me stesso ed mi sono chiesto: preferivi, per caso, vedere quei ragazzi in ozio sul letto con un tablet in mano, o depressi su una panchina? Lo sai bene che il calcio è l’antitesi alla pigrizia, tiene in esercizio il corpo, sviluppa l’autostima, favorisce la socializzazione ed abitua al rispetto delle regole condivise.
Certamente, il calcio si serve di un altro alfabeto. Il mio alfabeto, pensavo, utilizza il linguaggio verbale, quello dei concetti, dei sostantivi, delle generalizzazioni e delle astrazioni. Quei ragazzi, invece, quando giocano a pallone ma, più in generale, in tutta la loro vita comunicativa, usano un alfabeto fatto di emozioni, musica, immagini, gregarietà, fierezza agonistica.
Non c’è distanza maggiore di quella che deriva dalla diversità degli alfabeti comunicativi.
Mi viene in mente l’allegoria del bambino che si addentra in una grande biblioteca, i cui volumi risultano scritti con caratteri sconosciuti, per cui è impossibile comprenderne il contenuto.
Sarà per questo che durante le lezioni i nostri studenti sbadigliano o guardano l’orologio. L’altro giorno, sempre sul lungomare, a degli adolescenti, provai a citare una massima di Seneca, ma desistetti quando il capobanda, guardandomi acutamente, domandò: Ma il Senegal non sta in Africa?
Eppure, a pensarci, una lingua comune esiste: un codice non verbale, fatto di modi di guardare, di mimica, di tono della voce. C’è una sola lingua che tutti comprendiamo. Quella della disponibilità, del sorriso, dello sguardo valorizzante. Se invece di tirar dritto, in quel canicolare mezzogiorno di fine luglio, avessi raccattata la palla e l’avessi rilanciata ai proprietari, con sguardo amico, avrei prodotto un’esplosione empatica di energie positive, in me e negli altri. Altro che citazione di Seneca o Cicerone, altro che parolacce.
E’ così. Anche se non conosco il cinese, posso comunicare con tutta la Cina, solo sorridendo.
Luciano Verdone