Home I lettori ci scrivono La cultura del gioco come tirocinio per gli alunni?

La cultura del gioco come tirocinio per gli alunni?

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Recentemente, l’American Academy of pediatrics ha scientificamente dimostrato che l’attività ludica è fondamentale per la crescita e lo sviluppo dei  bambini tanto da raccomandare ai pediatri di prescriverla come terapia.

Oggi, purtroppo, in una società a forte contenuto tecnologico,  bambini e adulti  fanno sempre più fatica a comprendere bene il significato e il valore dell’attività ludica. Attratti da realtà virtuali vivono, prevalentemente,  con lo sguardo rivolto in basso, affidano i loro pensieri, le loro emozioni e i loro sentimenti a pseudo realismi, spesso riduttivi e stereotipati, che allontanano da quella dimensione naturale e universale chiamata gioco, da quella funzione essenziale della vita che fornisce opportune chiavi di lettura dell’intera esistenza dell’uomo.

Una civiltà, una cultura  che rinuncia ai giochi simbolici, che  offre soltanto prodotti finiti, cioè  giochi pronti per giocare,  giocattoli e non giochi, che orienta verso  attività virtuali e non reali,  restringe le più comuni esperienze di vita e favorisce, per usare le parole di P. Crepet, la cosiddetta “Pedagogia dell’autarchia”.

Diciamo che il gioco è conquista di libertà, fonte di conoscenza, motivo di crescita intellettuale morale e sociale.

C’è da chiedersi, allora, come mai nelle nostre comunità, attente, premurose e operose, il gioco vero, quello  autentico che rappresenta l’apprendistato alla vita, non trova più alimento ed incentivo, e non sembra costituire più uno stimolo privilegiato per soddisfare lo sviluppo pieno ed equilibrato della personalità?

Diversi anni fa M. Winn nel suo libro “La droga televisiva” faceva notare che  di  tutti i cambiamenti che hanno alterato la topografia dell’ infanzia, il più drammatico è stato la scomparsa del gioco infantile… Al posto dei giochi di fantasia e di finzione, al posto delle bambole e dei soldatini, della corda e della palla, i bambini d’oggi preferiscono la televisione.

A distanza di circa 40 anni la situazione non è cambiata:  bambini, fanciulli e adolescenti continuano non solo a guardare la televisione, ma hanno in mano strumenti molto più potenti che accelerano  il trasferimento di  bisogni che sono esclusivamente degli adulti e rivelano un’ansia nascosta che ostacola  il potenziale creativo del gioco.

Condizionati dall’enorme pressione della civiltà tecnologica i ragazzi crescono in fretta, imparano prematuramente a vedere la realtà con occhi d’adulto ed a vivere secondo modelli esistenziali propri dell’adulto.

Il che impone una attenzione continua ad un itinerario formativo complesso che trova la sua forza e la sua ragion d’essere nell’esperienza ludica, nel rapporto del soggetto con l’oggetto o, meglio, in tutto ciò che soddisfa il bisogno interiore di agire, conoscere e fare.

Diciamo, allora, che la possibilità di crescere e di svilupparsi è intimamente legata al gioco, alla struttura del rapporto con le cose che rappresentano una magnifica occasione per sollecitare la crescita esplorativa e conoscere nuovi ed insurrogabili aspetti della vita.

Per questa ragione le funzioni ludiche costituiscono una parte sostanziale di quel capitale psichico di cui il bambino ha bisogno per affacciarsi con profitto alla vita futura.

Infatti, in “Infanzia e società” E.H. Erikson rileva che il gioco è per il fanciullo ciò che il pensiero e i progetti sono per l’adulto.

Per non perdere di vista la vivacità che gli è propria, il ragazzo ha, dunque, bisogno di vivere una vita non artificiale e di muoversi liberamente in un ambiente pedagogicamente significativo.

Queste considerazioni, tuttavia, non bastano per rimediare alle deficienze di una civiltà che fatica molto a far sorridere un bambino, a scoprire la sua vocazione abituale al gioco e alla fantasia, ad aiutarlo a crescere in una dimensione chiaramente ludica.

È singolare il fatto che con l’inserimento precoce dei bambini nel mondo degli adulti – sia a causa dell’uso improprio di potenti strumenti tecnologici che a causa di nuovi stili educativi – il gioco e, soprattutto, le vecchie forme di gioco abbiano perso quanto avevano di formativo, piacevole e allettante.

Ed allora, ai bambini e ai ragazzi non resta che ripiegare su modalità di svago alternative e vivere in una dimensione di gioco virtuale e di isolamento reale.

Così mentre da un lato si assiste ad una sorta di infantilizzazione degli adulti e ad una presunta attenzione alla freschezza emozionale del bambino, dall’altro si offrono inopportune sollecitazioni esperienziali che lo chiudono in uno splendido, ma doloroso isolamento.

Possiamo dire che nella civiltà odierna molte sono le contraddizioni e le  distorsioni educative che alterano notevolmente la vita di relazione, privano il bambino  del suo tempo e del suo  spazio, lo sollecitano  ad esercitare precocemente le attività razionali e gli impediscono di ascoltare fiabe, giocare,  scoprire  la concretezza della vita pratica, provare stupore e meraviglia e, soprattutto, di vivere e  sentire da bambino.

Da tutto ciò deriva l’immagine di una specifica e importante età della vita  costretta a parlare con parole non sue e, perciò, vittima di imperdonabili errori e negligenze.

Pertanto, se è vero ciò che Nietzsche diceva in  “Cosi parlò Zarathustra”, “Nel vero uomo è nascosto un bambino che vuole giocare”, famiglia, scuola e società, per arginare il dilagante fenomeno del cosiddetto “autismo tecnologico”,  devono far leva su azioni educative efficaci e sollecitare i ragazzi a compiere un adeguato tirocinio ludico per diventare protagonisti e non spettatori passivi di ciò che ci circonda.

Fernando Mazzeo