Il guaio infatti, scrive Giordano Bruno Guerri, “è che anche quella islamica è una cultura, e non meno forte della nostra, perché basata sulla fede e quindi più elementare ma più salda. Gli equivoci che possono nascere da questa parola sono infiniti e basti pensare che soltanto in antropologia ne sono state date oltre duecento definizioni.
Convenzionalmente, per «cultura» si intende l’insieme di norme, costumi, arte, morale, religione eccetera che contraddistingue la vita dei gruppi umani, ma mi sembra più precisa la definizione di Ida Magli, per cui la cultura è un «modello globale» formato da un insieme di caratteristiche interattive che l’individuo respira senza accorgersene. Si capisce che la cultura esiste soltanto quando viene messa a confronto con una cultura diversa. Per esempio, il problema immigrati fa scattare una posizione, o di rifiuto o di discussione, che nasce dalle differenze. In quel momento la nostra cultura non appare più ovvia – a chi riflette – perché deve confrontarsi con un cultura diversa.
I terroristi islamici non riflettono, o almeno non riflettono più. Hanno abbracciato una fede assoluta che dice loro a priori cosa è il bene e cosa il male, e che tutto il bene sta dalla loro parte, tutto il male dall’altra. Noi, in fondo, facciamo la stessa cosa quando li condanniamo, ma con una differenza fondamentale: non ci basiamo su un principio religioso (la mia fede è migliore della tua, il mio dio è migliore del tuo), ma sull’etica, sulla filosofia, sul diritto accumulati in secoli di storia: ovvero sulla capacità di giudicare gli altri senza condannarli a priori. La coscienza etica personale – ovvero la consapevolezza dell’individuo che caratterizza la cultura occidentale moderna – è tutt’uno con la razionalità e non permette di pensare che siccome l’imam dice che uccidere gli infedeli è giusto, allora va fatto.
È per questo che la nostra cultura, intesa come istruzione, da sola non basta a sconfiggere il fanatismo terrorista. Allo stesso modo non basta il nostro diritto, che obbliga a perseguire un colpevole e non un sistema, mentre i terroristi colpiscono il nostro sistema, sicuri di essere nel giusto sparando alla cieca. Una volta che ci si è costruiti un Dio vendicativo, se ne diventa prigionieri e succubi. Per questo il terrorismo si può combattere solo con le armi, se attaccati, o portando pacificamente la nostra cultura basata sull’etica – a dimostrare la sua superiorità. Ma è un lavoro lunghissimo, difficilissimo. E pensi, ministro Giannini, che l’unico computer nella classe di mio figlio è rotto da settimane”.
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