I lettori ci scrivono

La DaD è tratta?

Nel suo celebre e commovente discorso al III Congresso dell’Associazione a difesa della scuola nazionale (ADSN), l’11 febbraio 1950, Piero Calamandrei esordisce chiedendosi perché sia necessario difendere la scuola: è forse in pericolo? E ancora, quale scuola intendiamo difendere e da chi o che cosa?

A settant’anni di distanza, c’è ancora bisogno di rispondere, con nettezza e vigore, a quella stessa, fondamentale domanda sulla necessità di difendere la scuola pubblica. Calamandrei è persuaso che la scuola da difendere sia quella democratica, ovvero quella che corrisponde alla Costituzione, al fine di rendere le parole dell’Articolo 3 una vibrante realtà.

La scuola è dunque espressione stessa della democrazia, suo organo fondamentale, luogo in cui si compie la formazione dei futuri cittadini e delle future cittadine. La quale tuttavia non è solo composta dalle donne e dagli uomini che siedono in Parlamento e nelle altre istituzioni, ma anche dalla classe culturale e tecnica: coloro che sono a capo delle aziende, coloro che insegnano, che scrivono, che compongono musica e dipingono, i professionisti, i poeti…

La scuola forma alla democrazia e formare alla democrazia è una grande responsabilità, talmente grande che delegarla, interamente o in parte, alla didattica a distanza, sarebbe una perdita dal valore inestimabile. Cosa vorremmo che rimanesse alle nostre alunne e ai nostri alunni dei loro anni di scuola?

Quale eredità vorremmo lasciare loro come docenti?

Negli ultimi mesi abbiamo assistito allo stravolgimento delle nostre vite; milioni (miliardi, se la pensiamo su scala mondiale) di persone si sono dovute adattare a una nuova quotidianità, spesso anche lavorativa, a nuove abitudini, a nuovi stili di vita, reinventando modi per gestire gli affetti e le relazioni umane, costruendo nuovi rituali per salvaguardarle. In un momento storico in cui la politica e i mass media – non senza picchi di retorica – nelle settimane più buie del lockdown hanno quotidianamente reiterato l’appello alla responsabilità civile e alla resistenza, ribadendo che ciò che si fa come singoli ha un valore solo se condiviso dalla comunità intera, la scuola può certamente dire di aver fatto la sua parte: con grande senso di responsabilità i/le docenti hanno resistito, hanno reinventato se stessi e il loro modo di lavorare, dalla didattica alle modalità di verifica dei saperi, dalle strategie di valutazione alla gestione del rapporto con le alunne e gli alunni.

I/le docenti dunque hanno difeso il valore del sapere e della cultura, cioè hanno difeso la scuola e la sua stessa esistenza (e in tempi di pandemia non era scontato), da un nemico subdolo e invisibile che ha minato la salute dell’umanità su scala planetaria.

La DAD però non può essere assunta a sistema, non può diventare lo strumento d’elezione della didattica, perché tale non è. Non ne ha né i requisiti intrinseci, né la nobiltà. Essa infatti è nata da un’emergenza, per garantire a milioni di alunne e alunni in questo Paese il diritto all’istruzione, ma questo non può fare di lei la scelta d’elezione per continuare a organizzare la didattica nel post emergenza, in una fase che da ogni parte viene definita di “ritorno alla normalità”.

Quale dovrebbe essere, dunque, il ritorno alla normalità della scuola? Appare abbastanza chiaro che l’orientamento della classe dirigente e della politica segua la atavica logica del risparmio, quella stessa logica che, dopo decenni di tagli scellerati, ha rischiato di far arrivare al collasso il sistema sanitario, l’altro fanalino di coda di questo Paese.

La DAD è comoda dal punto di vista di una politica miope e meschina, perché dà la possibilità di risolvere il problema del distanziamento sociale in modo economico, a costi irrisori, senza cioè dover investite risorse (cospicue!) in edilizia scolastica strutturale, ricerca di sedi nuove e/o alternative, ammodernamento e adeguamento degli arredi, assunzione di personale per avere organici in grado di far fronte all’aumentato numero di classi. In nome dunque del risparmio, che si attua sempre sulla pelle dei più deboli, in questo caso della scuola (che poi vuol dire di milioni di giovani in formazione), la classe dirigente di questo Paese è disposta a rinunciare alla didattica in presenza, ovvero alla fondamentale relazione docente-discente che è alla base della trasmissione efficace di qualunque sapere.

È molto doloroso assistere a una simile delegittimazione del valore del sapere e della cultura, sembra quasi vi sia in molti la percezione della scuola come un non-luogo, alla stregua di una stazione o un centro commerciale, luoghi cioè che si percorrono, si attraversano, se ne usufruisce in qualche modo, ma non si abitano mai veramente per via della loro intrinseca prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici. Tutto ciò non è mai stata (e mai dovrebbe diventare) la scuola, ovvero quel luogo privo di identità, relazioni e storia che invece con l’affermarsi definitivo della DAD rischierebbe di concretizzarsi sotto i nostri occhi.

La scuola deve continuare ad avere una valenza intrinseca fondamentale per chi la frequenta: essa infatti rappresenta, per il solo fatto di averla abitata e vissuta, giorno dopo giorno, per anni, un processo continuo di maturazione e di passaggio, lento e quotidiano, di costruzione della propria identità e della propria adultità, tra fallimenti e successi, delusioni e eccitazione, momenti di crisi e di rivalsa. Lungi dall’essere non-luogo, la scuola è invece luogo antropologico a tutti gli effetti, in grado non solo di conferire un’identità alle persone che la vivono, ma anche di farle entrare in una relazione attiva, dinamica, proficua e vitale, sia tra loro sia con il luogo stesso.

Tutto ciò però è possibile solo nella didattica in presenza, solo se gli attori e le attrici di questo straordinario processo sono voci e corpi, che si guardano, si ascoltano e si vedono in presenza. Mai nulla di tutto questo sarà possibile con la DAD.

Quello che si chiede dunque alla politica in questo frangente è di creare e garantire sul lungo periodo le condizioni di sicurezza per un pieno ritorno alla didattica in presenza. L’impegno che pretendiamo dalla classe dirigente di questo Paese, a cominciare dalla Ministra dell’Istruzione, è quello di un intervento radicale, in senso pressoché letterale, ovvero dalle fondamenta dell’edilizia scolastica, che avrà senza dubbio costi ingenti, ma che, nonostante ciò, si deve necessariamente intraprendere, perché la posta in palio è la salvaguardia della salute di milioni di persone e della scuola stessa come istituzione democratica. Del resto, se negli ultimi trent’anni essa fosse stata adeguatamente finanziata e non vittima di continui tagli, se non si fosse cercato di ridurla a un’impresa privata, imprimendole un passo aziendalista e verticista che rischia, riforma dopo riforma, di soffocarne l’intrinseca vocazione alla libertà, se non fosse stata costretta, per la cronica mancanza di fondi, a mettersi sul mercato, diventando ghiotto terreno di caccia per l’imprenditoria privata, forse non sentiremmo la necessità di premere per la sua riapertura, perché questa sarebbe – come giusto – imminente, a questo stadio di evoluzione della pandemia. E sarebbe imminente perché ci sarebbero le condizioni strutturali per garantire la sicurezza di tutte e tutti, grazie allo stanziamento di congrue risorse. E invece nulla di tutto ciò al momento sembra essere tra le priorità dell’agenda politica. E questo rischia di avere drammatiche ripercussioni sull’intero assetto della nostra società, oltre che sul diritto all’istruzione di milioni di giovani.

Questa dovrebbe essere la vera battaglia da intraprendere, perché se pensiamo che in gioco ci sia una mera questione di trasmissione di contenuti, replicabile in qualunque modalità e con qualunque strumento, commettiamo il fatale errore di guardare il dito anziché la Luna.

I docenti e le docenti del Liceo Scientifico “A. Avogadro” di Roma

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