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La DaD produce “autistici digitali”. Psichiatri, psicologi e didattica a distanza

«Secondo qualcuno i bimbi fortunati son quelli che hanno l’iPad. Secondo me i bimbi fortunati sono quelli che hanno il Pongo. I bambini hanno bisogno di giocare insieme; e se un Ministro non capisce questo, è meglio che vada al roseto comunale». Parole infuocate quelle pronunciate sin da maggio dal noto psichiatra Paolo Crepet di fronte alle telecamere de La7. «Un bambino ha bisogno di socialità, di carezze, di esser sgridato e lodato, di prender voti, di giocare a pallone nel cortile. Se non si capisce questo, bisogna rileggere don Milani e Maria Montessori. Avere una classe politica che non capisce questo e che manda metà dei bambini nel solipsismo casalingo per diventare autistici digitali, è una cosa che mi fa orrore! Da 40 anni mi occupo di questi argomenti e mi fa orrore! Noi italiani siamo stati pedagogisti straordinari, e adesso abbiamo dei burocrati che decidono con la monetina: “Tu stai a casa col tuo monitor e tu vieni due o tre orette a scuola”! Ma che mondo è? che governo è? Non m’interessa la politica, m’interessa l’intelligenza, il buonsenso! I ragazzi diventano autistici, perché non usano i sensi! Fidatevi di chi fa questo lavoro!».

L’opinione di Crepet — educatore, opinionista, psichiatra, sociologo nonché saggista, laureato in medicina a Padova nel 1976 e in sociologia a Urbino nel 1980, specializzato in psichiatria a Padova nel 1985 — è particolarmente autorevole.

Ciechi che guidano ciechi?

Gli fanno eco molti psicologi. Marcelo Ceberio, psicoterapeuta argentino noto in tutto il pianeta: «Ragazzi disorientati con genitori disorientati che cercano di guidare gli altri figli disorientati cui bisogna aggiungere gli insegnanti disorientati nel tentativo di guidare il disorientamento dei genitori e dei loro studenti. L’aspetto più curioso è che, chi è disorientato, finisce per disorientare tutti, incluso se stesso. Se a tutto ciò aggiungiamo la connessione a tratti debole, siamo sulla buona strada verso il caos. Per finire, i ragazzi, oltre a fare i compiti, vogliono anche giocare, saltare, parlare, gettare gli animali di peluche sul tappeto, usare tablet e Play Station, ecc.. Nel frattempo, tra i genitori si diffondono il cattivo umore e la frustrazione, perché esausti».

Senza gruppo classe non c’è crescita

La letteratura psicologica reputa il gruppo classe un aiuto insostituibile per la crescita dell’adolescente. Lo dimostra un testo del 1998, “Adolescenza e rischio: il gruppo classe come risorsa per la prevenzione”, cura di Franco Giori, con presentazione di Gustavo Pietropolli Charmet e saggi di studiosi come Elena Riva, Diego Miscioscia, Nicoletta Jacobone.

Un sovraccarico che isola

Federico Bianchi di Castelbianco (psicoterapeuta dell’età evolutiva e direttore dell’Istituto di Ortofonologia dal 1970), pur non sfavorevole alla DaD, ammonisce: «Se la quantità di compiti assegnati dall’insegnante diventa esagerata, o se i genitori aggiungono altri compiti pensando di non far annoiare i figli, allora si verifica un problema. Questo sovraccarico finisce per isolare maggiormente i bambini, più orientati a star soli davanti al computer o davanti al videogioco».

Il docente ideale e il “device” senz’anima

Interessante quanto Vittorino Andreoli ha scritto nella sua lettera aperta agli insegnanti italiani. Secondo il noto psichiatra — che è anche poeta e scrittore celebre in tutto il mondo — l’insegnante non è sostituibile né da macchine, né da altre figure di adulto: il docente ideale è «una personalità che si presenta convinta e convincente, coerente, capace di svolgere il proprio ruolo e di manifestarlo anche nel silenzio, con la sola presenza. E persino nell’assenza, poiché l’insegnante viene introiettato e c’è anche quando non c’è e si può giungere a una presenza che dura una vita. L’autorevolezza non è mai autoritarismo, che si veste della violenza e della minaccia del potere. La qualità che segue subito dopo è la partecipazione alla scuola. Una presenza attiva, animata dalla voglia di dare, di fare sempre meglio senza mai chiudersi in una recita fredda, seguendo uno stanco copione che si ripete da anni. La si misura con il desiderio di andare a scuola, di entrare nell’aula o all’opposto con la paura persino di salire sulla cattedra. La partecipazione è condizionata dal modo di pensare, dallo sforzo di percepire e far percepire qualsiasi argomento in maniera accattivante, interessante e aggiornata, dunque in una versione sempre nuova poiché nulla nelle discipline insegnate rimane immutato e l’insegnante deve coglierne le novità. (…) Altrimenti il tuo competitore diventerà il computer che è disanimato, mentre tu l’anima ce l’hai: è la caratteristica che differenzierà sempre l’uomo dalle macchine».

Senza fisicità non c’è apprendimento

Maria Montessori sosteneva che la scuola deve dare ai bambini quanto non hanno, per spingerli imparare educando i sensi: ad esempio i giocattoli. Se i ragazzi sono già chini sugli schermi per ore al giorno, può la Scuola costringerli ad imparare stando chini altre ore sui medesimi schermi? Cosa impareranno, senza esperienza tangibile della realtà? E cosa ha fatto il Governo, affinché non fosse necessario, per la sicurezza di tutti, costringere alla DaD almeno un terzo degli studenti italiani anche quest’anno scolastico? Si vuol forse che la Scuola muti definitivamente in qualcosa che Scuola non è?

Alvaro Belardinelli

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