Tutti gli usi della parola a tutti. Mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo»[1]. Così scriveva nel 1973 Gianni Rodari, lo scrittore noto per la letteratura per l’infanzia di cui, tra l’altro, ricorre il centenario della nascita proprio in questo sgraziato 2020, che, dal punto di vista didattico e non solo, ci ha riservato grandi e inaspettate sorprese.
Chissà cosa avrebbe pensato Rodari dell’evoluzione del web e della possibilità che oggi ci offre internet di dare la parola a tutti – ma proprio tutti – affidata perlopiù a lapidari post lanciati nella rete per mezzo dei social network. Chissà se avrebbe trovato così democratico un uso, spesso, così disinvolto del linguaggio e della parola per esprimere odio e risentimento nei confronti degli altri.
Pensavo a Gianni Rodari e al paradosso di un anno scolastico cominciato nel migliore dei modi, con le celebrazioni per il centenario della nascita dello scrittore, alle avventure di Cipollino, al suo senso di giustizia in un paese di ortaggi che impone leggi liberticide prive di senso, alla solidarietà senza violenza che permette a Cipollino di issare, alla fine, la bandiera della Repubblica sul castello dei malefico cavalier Pomodoro e poi pensavo alle modalità con le quali questo anno scolastico volge al termine, la didattica a distanza, le videochat, i meeting chiusi nella propria stanza, lo zoombombing di imbecilli che irrompono nelle classi virtuali e si masturbano, le schede da fare a casa con i genitori in preda all’esaurimento nervoso e ad una inquietante solitudine che non riesce a farci concentrare.
Pensavo ancora a Rodari, al suo impegno politico e letterario in favore di scuola laica, antifascista e democratica, a lui che credeva, come molti in quel periodo, che la liberazione degli uomini e delle donne dal giogo di ideologie liberticide fosse imputabile ad un difetto di cultura, di alfabetizzazione e per questo dedicò tutta la sua vita ad educare le persone nella fase più delicata della loro formazione, l’infanzia, per innestare con semplicità, ma molta persuasione, valori concreti come la solidarietà, l’amicizia, la bellezza della natura.
Ai tempi di Rodari la scuola era al centro di un dibattito serio, inevitabilmente politico, in cui gli studiosi assegnavano unanimemente a questa agenzia di formazione un posto centrale nello sviluppo della personalità dei cittadini, l’unica possibilità di attivare sentimenti sociali, morali, civili e, al tempo stesso, permettere ai figli dei contadini e degli operai di appassionarsi allo studio per ambire a diventare professionisti, l’orgoglio dei loro genitori.
E c’è stata, probabilmente poi terminata negli anni ’90, una stagione in cui nella scuola, accanto alla trasmissione di contenuti, vi era una dimensione dialettica e degli spazi che permettevano il dispiegamento di una dialettica, molto spesso ideologica, strumentalizzata, emotivamente connotata più che teoricamente fondata, che però reggeva e sosteneva un dibattito politico intenso, sentito, a volte anche sclerotizzato intorno a posizioni utopistiche, che magari oggi possono sembrare anche ridicole, ma che educavano i ragazzi alla vita politica e sociale.
Poi ad un certo punto si è rotto il legame tra educazione e società ed è accaduto nel momento in cui la scuola non si è più configurata come la sola agenzia di formazione, ma si è lentamente delineato un policentrismo formativo, accanto ad un incremento dei tassi di scolarizzazione, fenomeni che hanno poi generato un’inflazione di titoli scolastici inutili per il mondo lavorativo e, al tempo stesso, la perdita di credibilità nella scuola come istituzione. Il risultato più lampante di questa stagione è stato, dicono gli studiosi, la fine del “credenzialismo”[2], cioè la fine della credenza nei titoli di laurea e nei certificati per l’accesso alle professioni socialmente più ambite, affermate e remunerate, mentre si è sempre più insinuata l’idea che per avere successo, quello vero, di pubblico e milionario, si dovesse puntare ad altro, allo sport, al talento e, infine, alla rete.
Se i ragazzi e le ragazze della Generazione Y, nati/e tra il 1980 e il 2000, hanno avuto il privilegio di essere definiti nativi digitali e si sono fatti strada esplorando le risorse del web in costante sviluppo, tra la Generazione Z e la Generazione C[3], nati tutti dopo il 2000, si fa strada in maniera prepotente, e potete chiedere ai vostri figli, se ne avete, il sogno di diventare degli youtubers, cioè di diventare famosi e ricchissimi attraverso la messa a disposizione del web le proprie performances che raggiungono brevemente anche milioni di visualizzazioni, se si usa un linguaggio di respiro internazionale.
E se pensate, tronfi di pregiudizi, che il mondo degli youtuber si esaurisca con i futili consigli modaioli di Chiara Ferragni, oppure con la rubrica Fatto in casa della foodtuber Benedetta Rossi, il cui canale youtube raggiunge più di due milioni di iscritti, vi sarete pure accorti in questi due mesi in cui avete lavorato da casa in smart working, che i vostri figli tra i tre e i dieci anni provavano più interesse e piacere nel seguire le vicende di Me contro te con Lui e Sofì (qui viaggiamo su numeri che si aggirano intorno ai cinque milioni di iscritti) sul tablet che guardare i cartoni in tv.
Tuttavia, il mondo degli youtubers che i giovani frequentano è molto più vasto e interessante di quello che i Baby Boomers (nati tra il 1946 e il 1964) e la Generazione X (nati tra il 1965 e il 1980) possa immaginare: Imen Boulahrajane di origini marocchine, nota come Imen Jane, ha soli 26 anni e una laurea in Economia alla Bicocca di Milano e se avete un profilo instagram e provate a cercarla, scoprirete che può farvi comprendere semplicemente molte questioni di economia e finanza che non pensavate alla vostra portata; Riccardo dal Ferro, con il nickname RickduFer, ha frequentato il Liceo Zanella di Schio (VI) e poi si è laureato in Filosofia a Padova e adesso è il primo youtuber da 70.000 visualizzazioni sul tema della filosofia sul web e, infine, se avete bisogni di consigli per gli acquisti in libreria non cercate più le recensioni scritte, ormai vetuste, come dice la Ministra Azzolina, ma cercate tra i bookstagrammer e booktuber emergenti più famosi, come Tiffany, Carmen Borrelli, Chiara Martini e Piera degli Spiriti e sicuramente cambierete opinione sulla demonizzazione del web.
Ora, non è un mistero che negli ultimi anni la scuola si sia ridotta a mero strumento di smaltimento burocratico e pedissequo di programmi ministeriali, inframmezzati da sprazzi di novità dovuti più che altro all’estro di qualche sparuto docente che lotta quotidianamente contro la burocrazia che lo investe. Del resto, anche per i ragazzi il tempo e lo spazio per attività alternative, per la creatività, il talento e lo sviluppo delle capabilities vengono messi al servizio della partecipazione a numerosi concorsi, laddove la competizione diventa una delle chiavi di volta di questa idea di educazione che presta il fianco al lessico e alle tendenze specifiche dell’economia.
Molti docenti lamentavano già prima dell’avvento del Coronavirus l’inaridirsi della didattica ed era già palpabile la solitudine in cui i professionisti della formazione vivevano nella scuola, nonostante fosse un luogo molto affollato, una condizione di spaesamento dettata dall’assenza di sostegno, di conforto anche senza che si fosse la necessità del distanziamento sociale: la chiameremo una “solitudine prossemica”.
Poi è arrivato il Coronavirus a devastare le nostre routines, facendoci sprofondare in una terribile crisi, ma come ogni crisi, non è che una parabola con un picco parossistico, che poi tende a scendere dall’altra parte della linea del displuvio esistenziale e allora occorre riorganizzarsi. La chiamano resilienza questa capacità di ripensare autonomamente il proprio Progetto di Vita.
E anche la scuola ha mostrato un buon livello di resilienza e si è attrezzata con la didattica a distanza, che ha mostrato da subito l’esistenza in Italia di un impietoso Digital divide, compensato immediatamente con 85.000.000 di euro per fornire a tutte le alunne e gli alunni i dispositivi necessari e le connessioni per partecipare alle videolezioni, ma poi ci si è accorti che oltre ai dispositivi era necessario anche avere le competenze digitali per far funzionare le macchine, oltre alla motivazione, ovviamente.
Ci si è accorti da subito che la didattica a distanza poteva funzionare, ed in effetti ha funzionato, per quella che è, nelle scuole medie inferiori e superiori, mentre non ha funzionato del tutto nelle scuole primarie e non ha funzionato affatto nelle scuole dell’infanzia e con le ragazze e i ragazzi con disabilità, mostrando chiaramente quello che è il discrimine a livello pedagogico tra i diversi ordini di scuola. Ci si è accorti che esiste una frattura didattica e pedagogica insormontabile tra una scuola in cui si sta “in presenza”, perché il suo obiettivo è quello di educare, ed una scuola, che viene dopo che la prima abbia fatto il suo corso, in cui l’obiettivo è quello di istruire e per questa modalità l’azione a distanza potrebbe anche andare bene, giacché sulla base di questo principio si fonda quella che da qualche anno è diventata la pletora di università e scuole online che offrono diplomi e lauree senza esser mai venuti in contatto con persone fisiche, se non nella sessione finale….proprio come faremo noi in tempi di Coronavirus.
La spinta che, nella comprensibile confusione della situazione, il Ministero ha impresso alla digitalizzazione della scuola e della didattica ha permesso un fenomeno che adesso è diventato interessante da analizzare e seguire: l’incontro della pubblica istruzione e di massa con la comunicazione pubblica e di massa. Di conseguenza moltissimi docenti quarantenni e cinquantenni si sono messi in gioco e hanno colto la sfida: provate a vedere quanti docenti, accanto all’attivazione delle videoconferenze, si sono creati siti personalizzati e canali youtube individuali per fornire strumenti e lezioni asincrone sempre disponibili per i propri studenti, i quali hanno accolto con entusiasmo questa spinta innovatrice nella vita dei propri docenti youtuber.
È chiaro che, l’hanno detto in molti e non è il caso di ripetersi, la didattica a distanza non è scuola e questa solitudine prossemica generata dall’isolamento e dal distanziamento sociale non può costituire la regolarità, soprattutto per quella tipologia di scuola che deve educare. Lo stare in prossimità è fondamentale per dare calore e imprimere una direzione precisa a quelle azioni educative che necessitano di stimolare la motivazione, anche perché il controllo educativo a distanza, ce lo dicono tutti gli insegnanti di sostegno, non funziona affatto.
Se non altro, però, dalla congiunzione tra la funzione della pubblica istruzione e l’uso degli strumenti della comunicazione pubblica molti professionisti della formazione si sono accorti che è possibile articolare meglio un prodotto che sia veramente di massa, veramente fruibile da tutti e tutte, come i numerosi genitori, che hanno assistito i loro figli in questi mesi di didattica a distanza, sentendosi anche loro un po’ studenti, potrebbero testimoniare.
Bisognerebbe chiedersi, dunque, ora che questo anno scolastico volge quasi al termine, se oggi, più che mai in seguito all’emergenza del Coronavirus, che ha imposto la necessità di reinventarsi per essere iper e interconnessi, siamo diventati veramente più democratici, come voleva Rodari.
[1] G. Rodari, Grammatica della fantasia, Einaudi, Torino 1973, p. 6.
[2] Cfr. S. Brint, Scuola e società, il Mulino, Bologna 1999.
[3] Cfr. E. Besozzi, Società, cultura, educazione. Teoria, contesti e processi, Carocci editore, Roma 2006, p. 397.
Michele Lucivero