Fa ancora discutere il caso della docente di Palermo Rosa Maria Dell’Aria, sospesa per due settimane e “riabilitata” da Salvini (benché ciò non abbia ancora comportato l’annullamento della sospensione).
Resta sospetta la libertà d’espressione dei docenti: sempre più spesso vista come “politica in classe”, essa altro non è se non libertà d’insegnamento (che esclude, ovviamente, la propaganda elettorale).
Ma come si è potuti arrivare a questo punto? Com’è possibile che gli insegnanti, 30 anni fa stimati per preparazione culturale e autorevolezza, siano diventati bersaglio non solo di alunni e genitori, ma anche di Dirigenti e Amministrazione ministeriale? E cosa fanno i Sindacati più potenti per difenderli?
Correva l’anno 1993. Cominciava allora la svendita dei beni pubblici del Paese, la stagione delle privatizzazioni e la svolta ultraliberista della politica italiana. Il Governo (quadripartito DC-PSI-PSDI-PLI) era presieduto dal socialista Giuliano Amato. Il 3 febbraio fu varato il D.Lgs. n. 29, “Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego”. Da quel momento i Docenti delle Scuole (ma non quelli delle Università) furono immessi a forza nel Pubblico Impiego (pur non essendo impiegati esecutivi); ne venne privatizzato il rapporto di lavoro; furono sottoposti al Preside (trasformato in “datore di lavoro”), nonostante la libertà di insegnamento di cui sopra.
Rapporto di lavoro “privatizzato” significava, tra l’altro, perdita del “ruolo docente”: da allora al personale assunto stabilmente non è più conferito il ruolo, ma l’“incarico tempo indeterminato” (definizione usata prima del ’93 per i precari, a loro volta ora ancor più instabili perché incaricati a tempo determinato). Fu la condanna a morte degli automatismi di anzianità: gli scatti biennali divennero «gradoni» sessennali e settennali, in attesa della definitiva soppressione (che il Decreto già prevedeva).
I Sindacati maggiori non vi trovarono nulla da ridire. Lo stesso fecero quando la cosiddetta “autonomia scolastica” (L. 59 del 15 marzo 1997) conferì al Preside “datore di lavoro” la qualifica di “Dirigente Scolastico” (che — giustamente — nelle Università non esiste ancor oggi), rendendo lui più autonomo rispetto alle prerogative precedentemente spettanti agli organi collegiali.
Un’afona e tardiva resistenza sindacale non bastò fermare il codice disciplinare Brunetta del 2009 né il decreto Madia del 2017: in conseguenza dei quali il Dirigente Scolastico può infliggere fino dieci giorni di sospensione dal servizio (e ciò solo nella Scuola, non nel restante Pubblico Impiego!). Pene di entità superiore competono invece all’Amministrazione ministeriale: come nel caso della Professoressa Dell’Aria.
Ciliegina sulla torta la legge 107/2015 (cosiddetta “Buona Scuola”), che ha reso i Docenti sempre più timorosi e ricattabili.
Può dunque stupire che un’insegnante subisca una simile procedura per i motivi che sappiamo?
Altra domanda, che ci poniamo a mente fredda: perché la notizia è stata fatta uscire (dal quotidiano Repubblica) proprio il 16 maggio, se l’iter disciplinare era in moto da mesi? La data apparentemente è neutra e insignificante. Tuttavia il caso ha voluto che essa precedesse di 24 ore uno sciopero importantissimo: quello dei sindacati di base contro la contro la regionalizzazione. Così (guarda caso), le notizie relative allo sciopero stesso e alla manifestazione davanti Montecitorio sono state subissate dall’immenso polverone mediatico (presto mutatosi in uragano con agganci politico-elettoralistici) della notizia della povera docente perseguitata. È proprio vero: la dea Fortuna è cieca, ma a volte ci vede benissimo!
Ultima questione: quanto è propensa la categoria docente a mettere a fuoco la posta in gioco? Molti Collegi Docenti hanno votato mozioni o delibere che stigmatizzavano, con solenni parole, l’ingiustizia che ha colpito la collega di Palermo (cui rinnoviamo ovviamente la nostra solidarietà). Alcune scuole, alle ore 11 del 21 maggio, hanno interrotto le lezioni per leggere solennemente gli articoli 21 e 33 della Costituzione. Tutto giusto, tutto bellissimo. Ma dov’erano quei docenti quando venivano varate le leggi che abbiamo citato, e che consentono all’Amministrazione di operare come sta operando? E quegli stessi docenti hanno compreso che, con la regionalizzazione (contro la quale il 17 maggio, malgrado l’appello dei sindacati di base, in maggioranza non hanno scioperato), la loro condizione peggiorerà?
Hanno compreso che tra non molto i docenti italiani potrebbero avere 20 contratti (regionali, non più nazionali) diversi, 20 stati giuridici diversi, 20 codici disciplinari diversi, 20 profili stipendiali diversi, 20 monti orari lavorativi diversi? Hanno capito che ciò peggiorerà le loro condizioni di vita? Hanno compreso che, se persino molti Dirigenti esprimono solidarietà alla collega di Palermo, ciò avviene perché non sarà certo questa solidarietà a buon mercato a cambiare i rapporti di forza tra lavoratori della Scuola e controparte?
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