Autismo è un termine troppo spesso usato, direi anche abusato, di frequente utilizzato, nel lessico comune, con connotazione non appropriata né opportuna.
Nell’avviare questa riflessione, mi sento quindi in dovere di rivolgere innanzitutto un invito a chi leggerà queste mie righe: mai parlare di autismo ma, sempre e soltanto, di disturbo dello spettro autistico, se proprio vogliamo abbreviare, chiamiamoli autismi, le manifestazioni sono infatti molteplici e diversificate. Non stiamo parlando di una patologia afferente alla sfera della salute mentale, ma di una neurodiversitá caratterizzata da un diverso modo di vivere gli aspetti sensoriali, la socialità, la comunicazione, fuori dalle schematizzazioni convenzionali dai più riconosciute ed accettate.
Può sembrare una banalità quanto sto affermando ma il termine autismo sottintende una generalizzazione delle difficoltà ed un considerare, a priori, la conoscenza clinica come soluzione ad ogni problema quotidiano; in realtà, dietro una diagnosi di disturbo dello spettro autistico c’è una persona, con la sua individualità ed unicità e c’è una famiglia con il suo vivere quotidiano; sempre e soltanto da loro dobbiamo partire per fornire un supporto terapeutico adatto a quel bimbo e alla sua famiglia.
Fare “terapia” significa cucire un vestito su misura ad un bambino e alla sua famiglia, affinché al centro ci sia il benessere e l’adattamento stesso di tutto il sistema famiglia nei vari contesti sociali. Se è vero che questa diagnosi comporta, di frequente, difficoltà di comunicazione, interazioni sociali compromesse, interessi ristretti e gestualità ripetuta, non possiamo e non dobbiamo mai intervenire noi clinici standardizzando l’approccio in
modo rigido, così facendo, ignoriamo infatti la persona che deve essere sempre il centro del nostro operare.
Molti strumenti operativi non tengono conto del contesto in cui vanno ad inserirsi, per questo è fondamentale personalizzare e individualizzare ogni singolo percorso di vita. A monte, dobbiamo quindi focalizzare la nostra attenzione sul fattore umano, coscienti che sono specifiche e differenti le sfaccettature con cui questa neurodiversitá’ può manifestarsi, dobbiamo concentrarci sulla conoscenza del contesto familiare, solo partendo dai specifici bisogni del nucleo di riferimento e dalle individuali difficoltà, possiamo modificare nettamente la qualità di vita di chi si trova ad affrontare, H24 e 365 giorni l’anno, difficoltà spesso complesse anche da raccontare.
Quante volte ci è capitato di partecipare ad incontri conviviali, riunioni di
famiglia o feste di bambini? Qualcuno di noi si è mai chiesto, senza soffermarsi alla semplicemente osservazione, cosa sta provando, in quegli attimi gioiosi, il genitore di un bambino autistico? Mentre le altre
mamme sono intente a gioire del momento, a scambiarsi confidenze o a godersi semplicemente quel tempo, mentre i bimbi giocano felici, i genitori di un bambino o di un ragazzo nello spettro autistico, devono controllare ogni cosa, prevenire ogni imprevisto, sincerarsi che non si verifichi quell’evento che può destabilizzare la serenità del momento, non possono permettersi di distogliere i loro occhi nemmeno per un istante, l’imprevedibile è sempre dietro l’angolo, soffrono terribilmente quando qualcuno si avvicina loro chiedendo perché quel bambino non socializza con gli altri nella maniera adeguata, quando si chiude in sé stesso e, spesso, tentano di dare spiegazioni, rendendosi interpreti e traduttori di quei bisogni.
Ci sono genitori che non hanno la forza di affrontare le domande ed il giudizio sociale, si sentono diversi e quindi iniziano a rifuggire questi eventi conviviali, scelgono la via dell’isolamento. Spesso le uniche esperienze di
socialità sono solo all’interno del contesto scolastico. L’esperienza mi ha insegnato che se le difficoltà e le problematicità possono, in parte, assomigliarsi, le persone sono uniche e dalla loro conoscenza e
comprensione dobbiamo sempre partire.
La famiglia è un fattore fondamentale nel successo del nostro operare ed è indispensabile rendere ogni componente del nucleo familiare, parte attiva della rete di supporto e del percorso che insieme dobbiamo affrontare. Al primo incontro con una famiglia, mi chiedo sempre: “Cosa provano oggi questa mamma e questo papà? Quale è la loro maggiore fonte di stress? Quanto si sentono compresi? Quanto impegno è loro richiesto e quanto si sentono accolti nel contesto sociale in cui vivono? Come posso renderli membri attivi e responsabili di quella essenziale rete di supporto?”
Ogni situazione ed ogni necessità è diversa dall’altra, si modifica spesso col trascorrere del tempo, cambiano gli obiettivi ma un fattore resta ed è lo stress, senza mai dimenticare che maggiore è lo stress che si vive e minori saranno i progressi di questi bambini. È un dovere di noi terapisti: aiutare le famiglie ad affrontarlo. Possiamo farlo, tendendo concretamente una mano a quei genitori e creando quel necessario rapporto di fiducia reciproca, mostrando il nostro essere “tutti insieme” (scuola, famiglia, equipe di riabilitazione e contesto sociale di riferimento) una rete di supporto che persegue identici obiettivi, solo così possiamo incentivare la flessibilità, intesa come capacità di rispondere agli eventi quotidiani.
Un terapista è un alleato della famiglia, non un giudice e non chi si pone dall’alto a dare indicazioni clinico-terapeutiche, nessuno di noi ha in mano la bacchetta magica ma, se lavoriamo insieme, coinvolgendo attivamente ogni attore del percorso di crescita di quel bambino, ogni barriera potrà essere superata più agevolmente. Dobbiamo imparare tutti insieme a
capire le priorità del momento, solo così possiamo affrontarle, dobbiamo imparare a credere tutti in quel bambino, accettarlo noi stessi per primi e nel suo diverso modo di mostrarsi, solo così si sentirà accolto,
valorizzato ed accettato, solo così potrà dare il meglio di sé e aprirsi al mondo che sarà costruito intorno alla sua Unicità.
Dott.ssa Mariangela Di Costanzo
Responsabile scientifico di Rete SupeRare
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