C’è da riflettere. Fino a tre anni fa la pensione di vecchiaia per le donne era fissata a 60 anni, di punto in bianco è arrivata a circa 67, senza scaglioni che mitigassero la fregatura, e senza proteste. Le donne, si sa, accettano le ingiustizie con maggiore disposizione alla rassegnazione.
Negli anni allegri della nostra storia, nel pubblico impiego si poteva andare in pensione con 19 anni, sei mesi e un giorno. Chi lavora adesso sta pagando le scellerate baby pensioni di lavoratori più “fortunati” che hanno potuto fare questa scelta. Naturalmente a pagare sono sempre i “poveri cristi”, come si suol dire, non certo i responsabili, cioè chi ha introdotto questa misura antieconomica per guadagnarsi un serbatoio elettorale.
Tuttavia, la possibilità di uscire dal lavoro a 60 anni per le donne aveva una sua logica: era sì un costo sociale, ma anche una misura di welfare, e per questo veniva accettata. Intorno ai 60 anni infatti grava sulle donne il peso di tutta la famiglia: figli, nipoti e anziani. Negli altri paesi europei, quelli nordici, l’età lavorativa va oltre i 60 anni, ma esistono adeguate misure di assistenza. Le tasse che pagano i cittadini vanno concretamente a sostegno delle necessità familiari delle lavoratrici, e le pari opportunità sono rese effettive da idonei interventi legislativi, non sono solo il titolo “immagine” di rituali commissioni come avviene da noi. Ci sarà un motivo per cui la natalità in Francia, Svezia e Finlandia è il doppio della nostra!
Ma è la scuola lo specchio di tutte le distorsioni del sistema. Nella secondaria, i docenti sopra i 50 anni sono il 57% e solo lo 0,5% ha meno di 30 anni. Nelle elementari, a fronte del 44,8% di maestri ultracinquantenni (quasi la metà) solo lo 0,9% ha meno di 30 anni. L’elemento più preoccupante è appunto il gap fra vecchi e giovani, che da noi è un record assoluto europeo.
Con la recente riforma delle pensioni sarà il disastro sotto tutti i punti di vista. Non solo perché non c’è ricambio generazionale, ma anche perché non si può pretendere “passione” e “aggiornamento continuo” da donne ultrasessantenni con acciacchi propri (“dopo la sessantina ce n’é una ogni mattina” diceva un vecchio adagio) e con figli, nipoti e anziani sulle spalle. Le classi odierne vanno dai 25 ai 30 alunni, ognuno con i suoi problemi, le sue esigenze di “personalizzazione”, e soprattutto di “educazione” tout court visto che le famiglie delegano tutto alla scuola. Ci sarà una crescita esponenziale delle sindrome del burnout, oltre che di ogni altro tipo di malattia con incremento delle assenze, e quindi con peggioramento del servizio e aumento dei costi sociali. D’altra parte i giovani che aspirano all’insegnamento invecchiano nelle liste del precariato, arrivano al sospirato ruolo intorno ai 40 anni, spremuti come limoni, con entusiasmi affievoliti e stipendi da fame.
Chissà se la considerazione di questa allarmante situazione passerà per la mente dei super tecnici del governo Salva Italia. Tanto fra sette anni (quando le lavoratrici che hanno subito la fregatura potranno accedere alla pensioncina) anche gli attuali super tecnici saranno in pensione (l’età media del governo Monti è di 63 anni). Non certo con una pensioncina da “poveri cristi”…
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