Per focalizzare meglio la situazione verso questo problema, è interessante dare un’occhiata alla ‘classifica’ dei Top Italian Scientists (TIS) della VIA-Academy, ovvero un censimento degli scienziati di maggior prestigio, misurato con il valore di h-index, che rappresenta il numero che racchiude sia la produttività che l’impatto della produzione culturale o scientifica di una persona, basato sulle citazioni ricevute.
La ricerca non è solo in teoria uno dei motori dello sviluppo di ogni sistema Paese, ma è anche in pratica un grande investimento, negli ultimi 20 anni l’Italia ha perso quasi 4 miliardi di euro.
La cifra corrisponde a quanto ricavato dal deposito di 155 domande di brevetto, delle quali l’inventore principale è nella lista dei top 20 italiani all’estero e di altri 301 brevetti ai quali diversi ricercatori italiani emigrati hanno contribuito come membri del team di ricerca. Questi brevetti in 20 anni sono arrivati a un valore di 3,9 miliardi di euro, cifra che può essere paragonata ad una delle ultime manovre correttive dei conti pubblici annunciate dal nostro Governo (come la spending review).
Sempre per rimanere all’estero, ad esempio, in Ungheria non si propongono soluzioni alla fuga di cervelli, ma si invocano “le catene”. Il governo ungherese, infatti, ha ridotto sensibilmente i posti statali.
Sono spariti i finanziamenti, le borse di studio toccano pochissimi eletti e tutti gli altri sono costretti a pagare una tassa, molto elevata per la popolazione residente, che va da 380 a 3.500 euro a semestre.
A Budapest, infatti, gli studenti meditano di fuggire durante il periodo di studi, perché dopo non possono più farlo. Finirà così anche in Italia, speriamo di no.
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