Insistono Renzi e quelli del Pd a difendere ad oltranza la loro Buona Scuola. Ma soprattutto insistono – ed è molto fastidioso – a fare fessi i cittadini elettori, nello specifico i docenti.
Dicono, e ripetono, che smantellare la “Buona Scuola” (come pare vorrebbero fare i 5 Stelle) equivale a licenziare i 180mila assunti in virtù della legge 107.
È una grossolana balla, come voler far credere agli adulti che esistono babbo natale e la befana.
Intanto, come scritto due volte dal nostro direttore, le assunzioni sono avvenute su posti liberi e abbiamo ancora quest’anno 85mila supplenze annuali più il tour over. Quindi, se anche fosse possibile “licenziare” (ma non lo è), significa smantellare non la Buona Scuola, ma il servizio pubblico tout court.
Neppure negli anni delle drastiche “riduzioni” del ministro Gelmini si è mai fatto un licenziamento. I “risparmi di spesa”, imposti al settore Istruzione, sono stati ottenuti aumentando gli alunni per classe e ricorrendo sistematicamente ai precari invece che assumere personale in ruolo.
Tanto che nel 2014 la famosa sentenza della Corte di giustizia europea ha praticamente imposto al governo italiano, allora guidato da Renzi, lo stop ai contratti di precariato reiterati per anni, coprendo tutti i posti “vacanti e disponibili” con personale di ruolo, pena i risarcimenti.
Va detto poi che, quando un lavoratore è assunto a tempo interminato dallo Stato, diventando pubblico dipendente, non può essere licenziato a meno che non la combini proprio grossa … dalla truffa per falsa attestazione della presenza in servizio alle reiterate assenze ingiustificate, o gravi condotte aggressive, o condanna penale definitiva, o reiterata violazione degli obblighi contrattuali per negligenza e colpa, insomma tutte cose gravi che devono essere super documentate.
Dunque affermare che smantellare una legge, voluta solo dal PD e imposta a colpi di fiducia, comporta i licenziamenti del personale assunto equivale a ritenere i docenti e gli elettori dei creduloni alquanto sciocchi.
Dà anche molto fastidio sentir ripetere da vari piddini che il candidato premier Luigi Di Maio ha studiato “poco” non avendo la laurea. I primi a dimostrare coi fatti che non serve affatto la laurea per far carriera e arrivare ai vertici sono stati proprio quelli del PD che hanno portato al governo almeno quattro ministri senza laurea: Orlando, ministro della Giustizia, la Lorenzin, ministro della Sanità, Poletti, ministro del Lavoro, e l’ultima arrivata Valeria Fedeli, che, da ex sindacalista del tessile e senza titoli di studio universitari, si è trovata a reggere nientemeno che il ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.
Questo mentre un docente, per andare in classe, deve avere una serie di titoli: laurea magistrale, abilitazione e concorso come minimo, ma molto spesso anche specializzazioni o altri corsi universitari.