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La guerra è sempre esistita? L’archeologia dimostra il contrario. Insegniamolo a scuola

«Professoressa, la guerra è sempre esistita? esisterà sempre?». In un mondo disabituato a porsi domande, fortunato il docente cui questa domanda fosse posta da uno studente. La questione, infatti, oltre che interessante, non è affatto scontata come si sarebbe tentati — semplicisticamente — di pensare: soprattutto nel momento attuale, con le notizie atroci che giungono da Palestina e Ucraina.

I conflitti combattuti in tutto il mondo sono attualmente almeno 50; ma, se allarghiamo la definizione di conflitto oltre la concezione comune di “guerra fra stati”, arriviamo alla cifra spaventosa di 170! Basta accendere la TV per convincersi — erroneamente — che la guerra sia un male inevitabile, sintomo dell’innata tendenza umana all’autodistruzione.

La prima carneficina bellica documentata

E invece non è così; la questione può diventare argomento di interessanti e formative lezioni di educazione civica e storia.

Che la guerra non sia sempre esistita è dimostrato dall’archeologia. Non esistono, infatti, testimonianze archeologiche di guerre più antiche di 10.000 anni fa. E 10.000 anni sono ben poca cosa nella storia della nostra specie (homo sapiens), che ne ha almeno 200.000.

Le tracce più antiche di un massacro bellico sono, infatti, Nataruk, in Kenya. Lì, presso le rive del lago Turkana, decine di scheletri di persone massacrate da armi in pietra rivelano lo scenario di un conflitto violento, che, intorno all’8000 a.C., non risparmiò bambini né donne incinte.

Con l’agricoltura, nascono accumulazione, organizzazione, gerarchia, Stato. E guerra

Era l’epoca neolitica, in cui nasceva l’agricoltura: il momento, successivo alla fine dell’ultima glaciazione, in cui gli uomini (anzi, più probabilmente le donne) impararono a seminare e coltivare le piante. Ciò comportò la sedentarizzazione, l’aumento di cibo disponibile, e l’accumulazione di surplus alimentare; quest’ultima permise la divisione dei compiti, la stratificazione sociale, la nascita di una gerarchia finalizzata all’organizzazione del lavoro, la creazione delle classi sociali e dello Stato.

Essendo diventato fondamentale l’accumulo, si doveva accumulare anche terra coltivabile. Da qui i primi scontri con comunità limitrofe: scontri che nelle epoche precedenti, in cui si viveva di caccia e di raccolta, non avevano senso. Ed ecco la guerra.

Una società «autoritaria, centralizzata e controllata da una minoranza egemonica…»

Successivamente, con la nascita delle grandi civiltà storiche, circa 5.000 anni fa, nella “mezzaluna fertile”, la guerra si strutturò in modo permanente.

Scrive il sociologo e urbanista statunitense Lewis Mumford (1895-1990) nella sua opera “Il mito della macchina” (Il saggiatore, 2011): «Dall’antico complesso neolitico sorse un tipo diverso di organizzazione sociale, non più dispersa in tante piccole unità, ma unificata in una sola unità più grande; non più “democratica”, cioè basata su un intimo rapporto di vicinato, sugli usi tradizionali e sul consenso, ma autoritaria, centralizzata e controllata da una minoranza egemonica; non più confinata in un territorio limitato, ma decisa a “straripare” per impadronirsi di materie prime, per ridurre in schiavitù uomini indifesi, per stabilire il proprio predominio, per imporre tributi. La nuova cultura non si proponeva soltanto di migliorare la vita, ma anche di espandere il potere collettivo. Perfezionando nuovi strumenti di coercizione, i sovrani di questa società, con il III millennio a.C., avevano organizzato la loro forza industriale e militare su dimensioni non più superate sino alla nostra epoca».

3000 a.C.: “l’invenzione della guerra come istituzione” utile ai ceti egemoni

Il grande psicanalista e filosofo Erich Fromm (1900-1980) — che cita questo brano nel proprio monumentale trattato “Anatomia della distruttività umana” (Mondadori 1985, p. 206) — sostiene che a questo punto nacque la «conquista, come requisito essenziale per l’accumulazione di capitale comunitario necessario per realizzare la rivoluzione urbana». Era “l’invenzione della guerra come istituzione”. «Questa nuova invenzione, come la sovranità o la burocrazia, risale al 3000 a.C. circa. Allora, come adesso, non ebbe origine da fattori psicologici come l’aggressività umana, ma, a prescindere dalle ambizioni di potere e di gloria dei re e della loro burocrazia, nacque da condizioni oggettive all’interno delle quali la guerra era utile, e che, di conseguenza, tendevano a generare e ad accrescere la distruttività e la crudeltà umane».

Si trasforma anche il ruolo sociale della donna

«Questi cambiamenti politici e sociali», aggiunge Fromm, «furono accompagnati da un mutamento profondo nel ruolo sociale delle donne e nel ruolo religioso della figura materna. Fonte di ogni vita e creatività non era più la fertilità del suolo, ma l’intelletto che produceva nuove invenzioni, nuove tecniche, il pensiero astratto, e lo Stato con le sue leggi. Così non più il grembo, ma la mente divenne il potere creativo, e, contemporaneamente, non più le donne, ma gli uomini dominarono la società».

I popoli non vogliono la guerra: credono a chi la vuole

Non i popoli, quindi, vogliono la guerra, ma le élite che li dominano; anche se questo dominio viene esercitato nel nome dei popoli dominati. I popoli sono coinvolti nella guerra, ne diventano esecutori e vittime, come attori inconsapevoli di un dramma scritto da altri.

Non sono dunque il popolo palestinese, israeliano, ucraino o russo a commettere crimini, ma chi decide la guerra. Così come non la mano è colpevole dell’omicidio, ma l’assassino che la usa.

La Scuola è il luogo privilegiato ove far riflettere i giovani sul perpetuarsi di questa tragedia. La guerra, fenomeno storico, finirà quando prevarrà la volontà collettiva di farla finire per sempre.

Alvaro Belardinelli

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