L’alternanza scuola/lavoro è al centro dell’agenda scolastica dopo la manifestazione nazionale di venerdì scorso. La ministra dell’Istruzione, Valeria Fedeli, ha promesso misure volte a garantire il buon funzionamento dell’alternanza.
Intanto, sul Corriere della Sera, c’è spazio per la lettera di uno studente di 16 anni, Enrico Galletti:
Caro direttore,
davanti ai plichi di progetti formativi dell’alternanza scuola-lavoro, nella mente di un adolescente latitano due pensieri. Il primo, di chi il proprio futuro lo abbozza già a matita sul banco di scuola e in questo progetto vede l’occasione di accorciare le distanze tra sé e il mondo del lavoro. E poi un secondo pensiero, racchiuso in uno slogan: “noi non siamo operai”.
Chi si ribella all’alternanza scuola-lavoro lo fa con una storia alle spalle. Dalla preparazione dei caffè, al lavapiatti a ore che «domani c’è da lavorare quindi vieni due ore prima». E in questo quadro, piuttosto desolante, resta quella strana prospettiva di mezzo che parte da un presupposto. I giovani, per buona parte della società, sono i «bamboccioni», gli «schizzinosi», quelli che «ai miei tempi alla tua età si andava a lavorare». Che se l’alternanza scuola-lavoro bastasse a scansare questi facili pregiudizi, non resterebbe ombra di dubbio sulla sua validità. Entrare nel mondo del lavoro e farlo da giovani, oggi, significa voler bene a se stessi.
Resta però un diritto. Il diritto di sbattere la porta. La facoltà di rifiutarsi di lavare i pavimenti come esperienza formativa se il tuo sogno è quello di diventare medico. Il poter dire di «no» a qualsiasi forma di sfruttamento spacciata per formazione. Non si tratta di essere schizzinosi, o di non avere voglia di lavorare. È il sacrosanto diritto di arrabbiarsi, quando per andarsene, con stile, basta un semplice «grazie, ma io mi fermo qui, e torno a studiare». E i piatti sporchi li laverà qualcun altro.