Verrebbe la voglia di voltare subito pagina, sorvolando di qua e di là, al limite fermandosi solo sui titoli, ma senza immergersi nel testo. Il male fa sempre male.
Troppe sono le notizie che non finiscono di sconcertare per la loro crudezza. Sembra impossibile così tanto dolore in questo nostro mondo. Sembra impossibile tanto cinismo.
Ma il senso di colpa non dà pace, e pone a volte rimedio, perché consapevoli che la rimozione o l’indifferenza comunque non risolvono alcunché. Il nostro destino di vivere è sempre comune, perché noi siamo le relazioni che incontriamo.
Allora viene da pensare che oggi, in epoca di crudo machiavellismo della politica, non resti che un compito: resistere.
Resistere alla tentazione della indifferenza, e impegnarsi invece in sguardi che, seppur con fatica, si mettano ad andare oltre. Oltre la siepe leopardiana del piccolo cabotaggio, ed iniziare ad immaginare una possibile prospettiva di futuro possibile.
Perché oggi sentiamo tutti il bisogno di pensare-oltre, con l’aiuto di una facoltà umana, di una forma di intelligenza che non si pieghi al solo presente, ma provi ad immaginare il domani, fra cinque, fra dieci, fra cinquant’anni.
Oggi, cioè, sentiamo la mancanza di utopie positive, che ci aiutino ad andare oltre i limiti del quotidiano.
Ma non un domani che sia solo la proiezione dell’oggi, piuttosto frutto di quel “pensiero divergente” come antidoto e rimedio ai mali del presente.
“La vita è sogno”, diceva Calderòn de la Barca, in un dramma filosofico-teologico scritto nel 1635: “Che è la vita? Una follia. Che è la vita? Un’illusione, un’ombra, una finzione, ed è piccolo il più gran bene, perché tutta la vita è un sogno ed i sogni sono un sogno.”
Un sogno come rappresentazione, come spinta in positivo, come risorsa inesauribile, come ideale regolativo. Per non rimanere schiacciati su un pragmatismo che tarpa le ali del positivo comunque presente nelle nostre giornate.
Non si vive di sole convenienze, di soli mediocri interessi. Perché prima o poi passano, tutto passa. Perché al dunque, come sempre, contano le cose che qualitativamente costano e contano, non quelle che sole convengono. Per il resto, saranno la “legge del contrappasso” di Dante e la “livella” di Totò a pareggiare le sorti di ciascuno.
Dovremmo avere bisogno, appunto come contrappasso, di sentirci un po’ come delle aquile, che alzandosi in volo riescono, dall’alto, a scorgere non il presente fine a se stesso, quindi nemmeno il potere fine a se stesso, ma un profilo del tempo che veda assieme passato e futuro, secondo dei fili conduttori che dicano un senso complessivo, un senso pieno, un senso compiuto, per quanto sempre fragile.
Noi ogni giorno consumiamo tempo, energie, risorse, umanità: in fondo per che cosa?
Alzarsi in volo, quindi. Cioè pensare, sino in fondo, totalmente. E pensando, immaginare, sentire, credere, emozionarsi, anche calcolare, ma secondo ottiche che vadano oltre il presente, ed oltre i tornaconti vari. Tante sono le forme di intelligenze, utilizziamole tutte.
Amando, perciò, la verità oltre se stessi e le proprie opinioni. Accettando la sfida della “fatica del concetto”, cioè dello studio, del dialogo, del confronto, senza accontentarsi del primo ammaliante parere di chicchessia.
Sapendo che la fatica di questo amore è dolorosa, ma salvifica. Perché andare oltre il proprio ombelico non è proprio cosa di tutti i giorni.
Pensare, quindi, davvero, cioè secondo una domanda di verità che passa attraverso di noi, senza fermarsi su nessuno. Una vera liberazione dalle catene di quella caverna che, platonicamente, ci fa credere vere e giuste cose che, invece, osservandole dall’alto, appaiono per quelle che realmente sono. Cioè mere violenze.
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