Quando fu chiesto a Giovanni Verga, lui padre del “Verismo”, perché non scrivesse in siciliano, rispose che se l’avesse fatto solo pochi, e nell’isola, avrebbero letto le sue opere.
Come per certi versi è accaduto ai poeti dialettali, compresi i famosi i lombardi (Porta e perfino Giuseppe Parini), i romani (Belli e Trilussa) e pure per i siciliani illustri, Domenico Tempio e Giovanni Meli.
Ma lo stesso Leonardo Sciascia, nelle corrispondenze con Pasolini, che considerava il friulano frutto della cultura più genuinamente popolare, scriveva che il dialetto è possibile usarlo solo in poesia, giammai nella prosa o nella saggistica. E aggiungeva che ai giovani fa bene parlare l’italiano, considerato che la lingua, come qualsiasi creatura vivente, si modifica e si trasforma, varia persino nella sintassi, adeguandosi ai sempre più aggressivi barbarismi, mentre centinaia di lingue e dialetti nel mondo scompaiono ogni giorno, come le specie animali e vegetali.
In più, il dialetto è tale in quanto utilizzato da un gruppo ristretto di persone, in un luogo specifico e che non ha usi ufficiali, mentre, in riferimento al siciliano, non ha una sua grammatica unitaria per tutte le province e i comuni, né una sua sintassi comune, né una sua fonetica, compreso il vocabolario che muta da paese a paese, da città a città e così via.
Ciò tuttavia non toglie che vengano ugualmente intrapresi studi filologici sul dialetto siciliano, svolti da scrupolosi cattedratici, motivo per cui, è difficile parlare di lingua siciliana, come per certi versi fa rilevare lo stesso GerhardRohlfs, nella sua “Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti”.
Per altro verso, la regione Veneto, sfruttando l’articolo della Costituzione che tutela le lingue minoritarie, presenti soprattutto ai confini nel territorio nazionale, ha formulato, qualche anno addietro, una legge che individua nel popolo veneto una minoranza linguistica, cosicché il dialetto possa entrare nelle scuole e negli edifici pubblici. Questa premessa per sottolineare il fatto che periodicamente scattano proposte e norme di leggi locali per salvaguardare, riprendere, recuperare il dialetto al fine di ritrovare quell’identità regionale di cui anche in Sicilia l’Assessorato dei beni culturali si è voluto fregiare, aggiungendo, “dell’identità siciliana”.
Tuttavia, se in effetti si volesse implementare il dialetto nelle scuole, come sembra voglia fare la Regione siciliana, che ha stanziato ben 405mila euro per finanziare corsi di siciliano nelle scuole, bisognerebbe partire dai classici, come si fa con l’italiano. Ma chi sarebbero in Sicilia i classici? Giovanni Meli? Poeta dialettale ma i cui lemmi fanno esclusivo riferimento alla realtà palermitana del 700, come quelli di Micio Tempio al mondo catanese dello stesso secolo; e così pure le poche opere di Pirandello a quello agrigentino, sebbene più recente.
E non solo. Come si è evoluto il dialetto siciliano dall’epoca dei pochi classici fino ai nostri tempi, comprese le molte invasioni straniere? E ancora, quale sarebbe la “lingua” siciliana standard? Inoltre, quali metamorfosi hanno subito tante parole quando invece non siano del tutto scomparse? Diceva un linguista che le parole sono come i vestiti, più si usano e più si logorano, mentre quelle messe in cassapanca col tempo tarlano.
Il problema è semmai conservare, come si fa nei musei, le parlate regionali in modo che la cultura da cui quel lemma nacque sopravvivi.
Detto questo, c’è anche un altro problema: l’insegnamento delle lingue regionali (dialetti, parlate locali ecc.) pur avendo in sé una sua nobile finalità, che è appunto il recupero di una romantica identità culturale, ha pure bisogno di docenti in grado di farlo e in possesso di titoli documentabili per affrontare un tema tanto impegnativo e nello stesso tempo delicato.
Anche se lo studio, come si vuole fare in Sicilia, venisse inserito come attività aggiuntiva pomeridiana, coinvolgendo i ragazzi che ne farebbero richiesta, rimane il problema degli insegnanti in possesso di titoli documentabili, attendibili e ad hoc, per attuare una docenza quantomeno dignitosa.
E’ vero che tutti (o forse no) conoscono la parlata locale, ma è anche vero che migliaia di termini caratteristici siciliani col tempo sono andati perduti, sia perché l’economia è cambiata, da agricola a industriale, e sia perché il dialetto è anch’esso mutato, acquisendo termini e costrutti italianizzati.
Prendiamo come esempio tre versi di un sonetto di un poeta popolare: “Genti di cozzi, di timpi e chiarchiari//, cuticunazzi, viddani e pasturi// genti di macchi, zirbi e lavinari// di jazzi e di ticchieni li chiù duri.// Strippari, sfacinnati e zammatari//”… E’ dialetto dell’entroterra siciliano e i cui termini, strettamente contadini, non trovano riscontro nelle realtà rivierasche, né sono più usati là dove nacquero, ma che qualcuno dovrebbe tradurre, spiegare e commentare a ragazzi adusi ad altro: chi e con quali strumenti lo farebbe? E con quali strumenti culturali, storici e geografici, giustificherebbe quei lemmi?
Tranne che si prevedano corsi universitari specialistici e il ministero assegni classi di concorso e abilitazioni relative, perché altrimenti l’insegnamento del dialetto diventa altra cosa, un modo per sprecare i fondi regionali e per consentire a qualche docente di integrare il magro stipendio. E in ogni caso rimane la domanda delle domande: chi ne verifica, certificandoli, i risultati degli alunni?
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