Il Liceo classico sino a qualche decennio fa era considerato il più prestigioso corso di studi esistente in Italia. Figlio della riforma Gentile, esso ha rappresentato la via maestra d’accesso all’Università e, in ogni caso, una formazione ricca e salda per la futura classe dirigente. Oggi esso, invece, sembra essere alla fine della sua lunga parabola. Sono sempre meno gli studenti disposti a frequentarlo ed i motivi sono chiari.
I ragazzi nella loro giovanile schiettezza ne adducono di solito i seguenti: pesante, compassato, vecchio, incomprensibile. Insomma, da scuola delle élite esso è divenuto gradualmente la cenerentola del sistema liceale contemporaneo.
La questione ha così mobilitato il cosiddetto mondo della cultura, nonché l’intellighenzia ministeriale e didattica del nostro paese che hanno cercato con ardore, fantasia e decoro di rianimare alla meglio l’ammalato. A ragione essi si sono meravigliati del fatto di come potesse tramontare ciò che per definizione è intramontabile e cioè l’idea di classico. Ed, infatti, per molti la crisi del Liceo classico non è altro che la palese rappresentazione della fine dello studio, della cultura e dell’istruzione così come esse sono state intese sino a poco tempo fa. Potremmo anche definirla come la crisi della civiltà del libro che dal XV secolo ad oggi è riuscita a supportare e sopportare le ulteriori invenzioni comunicative, ma sembrerebbe – almeno per ora – non quella informatica e digitale.
Dal punto di vista pedagogico è fuori di dubbio che il merito principale del Liceo classico sia stato quello di esercitare le giovani generazioni alla pazienza della lettura, all’ermeneutica dei testi, al governo degli impulsi, all’osservanza delle norme morfosintattiche. Tuttavia esso ha quasi sempre fallito là dove non avrebbe dovuto e cioè in quella che sarebbe dovuta essere la sua ragione epistemologica fondante: la conoscenza delle nostre profonde radici culturali, la riappropriazione dei codici comunicativi attraverso i quali esse hanno potuto consentire al nostro tempo di germogliare.
Il Liceo classico è stato, invece, il luogo dove spesso i valori migliori della nostra storia sono stati dimenticati a favore di un normativismo grammaticale funzionale solo ad un’educazione repressiva e nazionalista. Schiere di filologi accigliati, nemmeno troppo capaci, sono riusciti a far odiare e dimenticare quello che avrebbero dovuto far ricordare (portare di nuovo al cuore). Nulla della scienza, della filosofia, della religione, della letteratura del mondo greco-latino, se non le vergognose versioni tratteggiate con la veneranda matita rossa e blu; nulla dell’unicità e familiarità dei saperi, della loro comune radice, se non l’imperdonabile – ahimè sempre imperante – partizione fra scienze umane (Humanae litterae) e scienze della natura il cui linguaggio è, sì, quello della matematica, ma il linguaggio della matematica – è bene ricordarlo – e quello della scrittura alfabetica, come quello di ogni altro fenomeno comunicativo, hanno una madre ed un padre comune; il logos, l’intelletto, la ragione dell’uomo.
Qui vi è però a tramare il peccato originale del nostro tanto decantato ed esaltato Umanesimo, così come l’errore-orrore che la scienza e la tecnica siano un prodotto della modernità!
La notte del Liceo classico è pertanto simbolicamente ed indicativamente la crisi profonda della nostra cultura e del nostro sistema d’istruzione, incapaci di mostrare come Omero e Bill Gates non siano poi così tanto lontani tra loro e come il primo parli ancora attraverso il secondo e, soprattutto, come sia impossibile progredire e continuare a germogliare dimenticando e soffocando le proprie radici.
Oggi più di ieri quindi, chi non vorrà sopravvivere come seme sterile dovrà volersi come autodidatta.
Carlo Schiattarella
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