I lettori ci scrivono

La metà dei 15enni non sa capire un testo: allarmismo o realtà?

La dispersione scolastica implicita, cioè l’incapacità di un ragazzo di 15 anni di comprendere il significato di un testo scritto, è al 51%. Un dramma, non solo per il sistema di istruzione e per lo sviluppo economico, ma per la tenuta democratica di un Paese. I più colpiti sono gli studenti delle famiglie più povere, quelle che vivono al sud e quelle con background migratorio“.

Questa la dichiarazione del 19 maggio 2022 di Claudio Tesauro, Presidente di Save the Children Italia, in occasione dell’apertura di “Impossibile 2022”: quattro giorni di confronto sui temi dell’infanzia.
Una dichiarazione grave che ha suscitato un allarme generale, una serie di dibattiti, confronti e varie opinioni discordanti tra loro.

Effettivamente, che più della metà dei ragazzi di 15 anni non riesca a comprendere il significato di un testo scritto sarebbe un fatto allarmante e dalle gravissime conseguenze; ma bisogna osservare che la notizia in sé è piuttosto imprecisa.

Infatti, quando si dice che un ragazzo non è in grado di comprendere il significato di un testo scritto, non si specifica il livello del testo, cioè se se si tratti di un testo elementare, complesso, breve, lungo, ecc.; inoltre non si specifica se, ad esempio, lo studente non è in grado di comprendere il significato letterale dei singoli termini o il senso delle frasi, o se non sa distinguere i fatti dalle opinioni, distinguere le cause dagli effetti e così via.

Una persona di qualche esperienza capisce subito che questa notizia così come è stata diffusa è piuttosto lacunosa in molti aspetti che andrebbero specificati in maniera più dettagliata e precisa.
Certamente, diffusa sui maggiori quotidiani senza le dovute verifiche, è divenuta oggetto di un dibattito non sempre centrato e ha suscitato un certo allarmismo non sappiamo fino a che punto giustificato.

Prendere atto della superficialità e dell’imprecisione con cui è stata diffusa questa notizia non ci impedisce però di domandarci quanto in essa possa esserci di vero e quanto sia grave la situazione dei nostri ragazzi relativamente alla loro capacità di comprensione di un testo, e in generale all’acquisizione di tutte le conoscenze previste a scuola per la loro età.

Possiamo immaginare che il dato di Save the Children non sia del tutto veritiero, o che sia divulgato in maniera scorretta e imprecisa, ma i dati della realtà, pur non essendo così drammatici, non sono certamente rassicuranti. Da insegnante, lo constato in modo diretto nella mia attività quotidiana di insegnamento, e trovo conferma nel confronto con i colleghi: spesso capita che i ragazzi non comprendano il significato del testo di un problema oppure del testo di un semplice quesito, e pertanto diano risposte del tutto incongruenti (a volte capita anche a più del 50% di loro).

So benissimo che la mia esperienza diretta di insegnante non fa statistica; però dobbiamo considerare che qualche anno fa, nel 2018, quindi prima dell’effetto aggravante dovuto a pandemia e dad, l’indagine OCSE-Pisa rilevava che solo un quindicenne su venti era in grado di distinguere un fatto da un’opinione, quando leggeva un testo basandosi sulle indicazioni implicite contenute in esso, e che addirittura quasi uno su quattro aveva difficoltà a comprendere concetti di base, ad esempio l’idea principale, espressi in testi non particolarmente lunghi; un risultato comunque sconvolgente.
Insomma, c’è poco da stare allegri.

Per disporre di un’informazione più completa, prendiamo in considerazione anche i recenti dati INVALSI, relativi all’ultimo anno della scuola secondaria di secondo grado; il seguente riepilogo dà i dati di sintesi delle prove INVALSI per l’anno 2021.

A livello nazionale gli studenti che NON RAGGIUNGONO risultati adeguati sono:


Italiano: 44% (+9% rispetto al 2019);
Matematica: 51% (+9% rispetto al 2019);
Inglese-reading (B2): 51% (+3% rispetto al 2019);
Inglese-listening (B2): 63% (+2% rispetto al 2019).


Colpiscono queste percentuali così alte, e colpisce ancor più la tendenza al peggioramento, che nel caso di matematica e italiano è di quasi 10 punti percentuali rispetto a due anni prima.
Ammesso e non concesso che i test “standardizzati” possano restituire delle “misurazioni oggettive” di capacità e competenze (ma qui si aprirebbe un altro filone di discussione che porterebbe troppo lontano dall’intento di questo scritto: purtroppo sono gli unici dati di cui possiamo disporre agevolmente), si tratta di dati assolutamente non rassicuranti, tanto più quando vengono confermati da fatti di rilevanza nazionale: è notizia di questi giorni l’esito catastrofico della delicata selezione dei magistrati, con i componenti della commissione valutatrice che lamentano temi scritti “in un italiano primitivo, senza alcuna logica argomentativa, quasi non valutabili”; addirittura la commissione ha valutato idoneo solo il 5,7% degli elaborati.

Nell’ambito del dibattito che si è sviluppato attorno alla statistica proposta da Save the Children, merita attenzione l’articolo dal titolo “Il problema della bufala sui ragazzi che non sanno comprendere un testo”, di Cristiano Corsini e Christian Raimo, rispettivamente pedagogista e scrittore, pubblicato il 21 maggio 2022 dal quotidiano “Domani”; articolo interessante, a patto di saper distinguere criticamente tra dati incontrovertibili e alcune opinioni piuttosto discutibili espresse dai due autori.

In questo articolo sono citati diversi dati: provengono da studi INVALSI, OCSE PISA e altri; sono dati ben documentati, per alcuni aspetti ineccepibili, ma vengono utilizzati per trarre delle conclusioni molto meno convincenti. Ad esempio, quando si dice che non vi è un peggioramento negli apprendimenti, più precisamente “Sebbene tale peggioramento non sia mai stato riscontrato dalle indagini su vasta scala condotte in Italia negli ultimi cinquant’anni”, si dice un’inesattezza: abbiamo appena visto che le prove INVALSI del 2021 rilevano un sensibile peggioramento rispetto al 2019 per italiano e matematica, sicuramente da tenere sotto controllo. Sarà stata una svista degli autori?

Ma il punto più criticabile è un altro. Si afferma infatti che a migliorare la situazione sarà, su modello della scuola primaria, che ha acquisito “tempi più distesi” (qualunque cosa questa affermazione significhi e qualunque valore abbia) “un ricorso più frequente a didattiche attive e docenti con una mirata preparazione metodologica. E se dessimo valore a questo tipo di dati ci consentiremmo forse di prendere in considerazione un investimento su questi aspetti anche nelle secondarie”.

Sostanzialmente, si afferma che si potrebbero risolvere o almeno attenuare i problemi delle carenze di apprendimento nelle scuole secondarie attraverso l’utilizzo di una didattica attiva e di docenti con una preparazione metodologica mirata, su modello di quanto già accaduto nella primaria (e anche sui reali risultati delle innovazioni nella scuola primaria ci sarebbe da discutere a lungo).

Ma questa conclusione, questo voler determinare la diagnosi del male rilevato nella scuola e nel contempo la cura, anche se si presenta con l’aura della scientificità, è solo una rispettabilissima opinione, e niente di più. Dove sono i dati, tra gli innumerevoli elencati nell’articolo, che supportano e confermano questa tesi?
Chi ha stabilito che le carenze negli apprendimenti delle scuole secondarie derivino da un mancato ricorso alla “didattica attiva” e dalla scarsa preparazione metodologica dei docenti? E, soprattutto, chi ha stabilito che l’attivazione di questi due aspetti è la cura per risolvere i problemi?
Magari i docenti hanno già una buona preparazione metodologica, e svolgono già le lezioni basandosi su una didattica attiva: dove sono le statistiche che ci illuminano in merito?

In realtà, non ci vuole molto per comprendere che si tratta solo di opinioni: infatti non vi è alcun dato nell’articolo che le supporti.

E, a proposito di opinioni, chi scrive ne ha di molto diverse, credo altrettanto legittime, visto che sono suffragate se non altro da una lunga esperienza della scuola, delle sue difficoltà, dei suoi problemi: mi sembra molto probabile che gli scarsi risultati degli apprendimenti degli studenti, soprattutto nella secondaria di secondo grado, siano dovuti a una sensibile diminuzione dell’orario di lezione destinato agli apprendimenti disciplinari, causata dalle recenti introduzioni delle attività relative ai PCTO e all’Educazione civica, che vengono svolte durante l’orario curricolare, al quale va sottratto anche il tempo impiegato negli incontri di orientamento e negli incontri con esperti di varia natura, quello utilizzato per diverse manifestazioni e per progetti non sempre necessari e spesso estemporanei, per svolgere le prove per classi parallele, le simulazioni delle prove d’esame e le stesse prove INVALSI: un’eccessiva mole di attività per le quali si utilizza l’orario curricolare e che sottraggono tempo prezioso, non sempre ben investito, alle ore di lezione.

È ovvio che se si chiede di insegnare determinate conoscenze e non si dà il tempo adeguato per farlo, i risultati non potranno che essere deludenti.

Io vorrei porre una domanda agli estensori dell’articolo sopra citato, un pedagogista, uno scrittore: certamente non mancano loro le competenze per rispondere. Avete conteggiato il numero di ore annuali di insegnamento disciplinare che vengono perse per svolgere attività slegate dall’insegnamento, rispetto al numero totale di ore previsto per ogni anno scolastico?
A me sembra un dato fondamentale e necessario ad avventurarsi in qualsiasi ipotesi di diagnosi/cura dei problemi rilevati. Eppure nell’articolo non è presente neanche un cenno a questo problema.
Invece sarebbe fondamentale: diagnosi errate o lacunose delle cause dei problemi possono portare a “cure” fuori misura o addirittura deleterie.

Proprio in questi giorni, e forse la coincidenza temporale non è casuale, è in corso l’approvazione in Parlamento di un decreto legge che, in materia di istruzione, si occupa in modo prevalente di formazione dei docenti in ingresso e in servizio.

Ecco, invece di approvare frettolosamente un decreto del genere (non dimentichiamo che la funzione dei decreti legge sarebbe quella di far fronte a situazioni di emergenza, le uniche che giustifichino il mancato coinvolgimento del Parlamento e l’assenza di un serio dibattito politico e culturale nel Paese), sarebbe fondamentale chiedersi di quale tipo di formazione possano aver bisogno i docenti della nostra scuola: potremmo scoprire che proprio la formazione metodologica sia quella superflua, e invece potrebbe essere molto utile una formazione sulla didattica disciplinare, sulla psicologia dell’età evolutiva, sulla psicologia dell’apprendimento, ecc. Insomma, non si può decidere su questioni di questa portata, che come tutto ciò che riguarda la scuola incidono sul futuro delle nuove generazioni, della nostra democrazia, della nostra società, se non dopo una seria e approfondita indagine condotta con metodo scientifico.
Se i dati e il metodo scientifico vengono sempre invocati per guidare le scelte del legislatore e dell’amministratore della cosa pubblica, questo approccio deve valere sempre senza eccezioni, e non si possono basare scelte e decisioni cruciali su delle semplici opinioni.


Roberto Ippolito

Gruppo La nostra scuola 

Associazione Agorà 33

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