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La metà dei docenti italiani non sa l’inglese

Il 57% dei docenti italiani valuta bassa o medio-bassa la propria conoscenza dell’inglese: solo il 18% ha investito in esperienze all’estero o collaborato con docenti di altri Paesi.

I dati sono contenuti nella vasta ricerca 2015 dell’Osservatorio nazionale sull’internazionalizzazione delle scuole e la mobilità studentesca, promossa dalla Fondazione Intercultura e presentata il 2 ottobre al ministero dell’Istruzione.

Dalla ricerca è emerso anche che il 60% del campione di professori intervistati, non ha nel suo curriculum formazione ed esperienze internazionali e che è tuttora ancorato a un modo classico di concepire la scuola, basato più sul possesso della materia di studio che sull’esperienza sul campo, auspicabilmente fatta all’estero. In medias res, esiste un altro 22% di insegnanti che ha un “potenziale di internazionalità”, avendo partecipato a corsi di lingua o avendo coinvolto i propri studenti in progetti all’estero come gli scambi di classe, i gemellaggi etc.

Dall’altra parte della barricata, invece, ci sono gli studenti che, con la complicità dei genitori, sempre di più vogliono correre, per arricchire il proprio curriculum scolastico e umano con un periodo di studio all’estero (la crescita di chi ha aderito a questi programmi è stata pari a un +109% tra il 2009 al 2014, anno in cui sono partiti 7.300 adolescenti per un periodo compreso tra i tre mesi e l’intero anno scolastico. Fonte: Osservatorio 2014).  

Se si va a scavare nella loro anagrafica, si scopre che non vi è una grossa differenza di età, genere, provenienza geografica tra i docenti “internazionali” e quelli definiti dalla ricerca come “local”. I primi hanno in media 47 anni (quindi non sono necessariamente i più giovani), i secondi 50 anni, sono equamente distribuiti in tutta Italia con punte, per quanto riguarda il primo profilo, in Lombardia e Puglia, per due terzi sono donne, così come lo è l’intero corpo docente. Certo, gli internazionali sono soprattutto i docenti di lingue, anche se il dato più eclatante, è che più della metà di questi non ha effettuato esperienze all’estero di lungo periodo

I prof internazionali hanno iniziato fin da giovani a lavorare alla loro formazione internazionale: il 49% ha frequentato brevi corsi all’estero da studente(12% i “local”), ben il 36% ha partecipato alla mobilità studentesca di lungo periodo, ad esempio Erasmus o l’anno all’estero durante le superiori (solo l’8% i local), il 27% ha lavorato all’estero prima dell’insegnamento (un piccolo 4% tra i local).

Ma che effetti ha nelle scuole la presenza dei Prof internazionali? Diversamente dai docenti local, gli “internazionali” si percepiscono più aggiornati (36% vs 23%) e innovativi (26% vs. 13%), maggiormente inclini a sperimentare metodi di insegnamento alternativi. Gli insegnanti “local”, invece, pur descrivendosi come docenti propositivi (28%), sono meno innovativi (13%). Se nella vita extra-scolastica sono persone aperte alle diversità ma che si sentono più a loro agio nel proprio contesto culturale, a scuola rispecchiano appieno l’immagine classica del docente: una figura stimolante (29%) ed esigente (31%), ma che fa fatica ad avere uno sguardo ‘globale’ e a riconoscere l’importanza di una formazione internazionale (solo l’1% si sente “internazionale”).

“La sfida che si pone di fronte a noi è quella di innescare un processo virtuoso per sostenere i docenti nella loro formazione internazionale– spiega il segretario generale della Fondazione Intercultura Roberto Ruffino – Può farlo la singola scuola, può farlo il privato, possono farlo le istituzioni. Sarà un processo a tre velocità: alcuni docenti andranno valorizzati nel loro già essere internazionali, altri – quelli “aperti” – dovranno essere meglio formati, altri ancora, la fetta più grande,  dovranno essere sostenuti, con tempi più lenti e più lunghi. I Presidi, grazie anche alla maggiore autonomia di cui godranno, avranno un ruolo fondamentale per questa evoluzione. Saranno loro a dover cogliere gli spunti provenienti dagli insegnanti più attivi e far sì che questi non si limitino a generare iniziative estemporanee, ma possano essere capitalizzati in buone pratiche ripetibili e condivisibili”

 

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Alessandro Giuliani

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