La Notte dei Licei Classici, da un’idea del prof Rocco Schembra del Liceo classico “Gulli e Pennis” di Acireale (CT), è diventato ormai un evento nazionale al quale molte scuole aderiscono. La prof Annamaria Zizza, docente di lingua e letteratura italiana nello stesso Liceo, racconta in cosa consiste e quali sono i punti di forza.
La Notte Nazionale dei Licei Classici, per quest’ anno scolastico fissata al 1° Aprile (le iscrizioni sono ancora aperte), è ormai parte integrante delle attività previste dal PTOF di molti Licei Classici italiani. Quattrocentotrentasette nel picco massimo prima della pandemia, cui è seguito un calo fisiologico dovuto alla scelta inevitabile di effettuare l’evento in modalità online.
E’ cosa nota che l’idea, semplice nella sua essenza, ma che si presta a svariate declinazioni, ha un padre: il prof. Rocco Schembra, docente di Latino e Greco presso il Liceo Classico “Gulli e Pennisi” di Acireale (CT). Già al suo primo apparire, la proposta “ha catturato l’attenzione dei media e ottenuto l’approvazione ministeriale”. Così recita, e a ben ragione, il sito della Notte Nazionale.
Ma in cosa consiste la Notte Nazionale? In un’apertura straordinaria dei licei classici aderenti all’ iniziativa, in orario pomeridiano e serale (dalle 18 alle 24). In questo arco di tempo, gli alunni, guidati dai loro docenti di riferimento, si esibiscono in svariate performance: “maratone di letture di poeti antichi e moderni; drammatizzazioni in italiano e in lingua straniera; esposizioni di arti plastiche e visive; concerti ed attività musicali e coreutiche; presentazioni di libri e incontri con gli autori; cortometraggi e cineforum; esperimenti scientifici; degustazioni a tema e ispirate al mondo antico e molto altro ancora.”
Non si tratta di un’ attività autoreferenziale, come potrebbe sembrare ad una prima sommaria impressione, ma di un evento che ha visto- e, si spera, continuerà a vedere, se supereremo l’emergenza sanitaria- la massiccia partecipazione della cittadinanza, degli Enti locali, delle famiglie degli alunni o di coloro che, magari, sono interessati ad iscriversi ad un Liceo Classico ma non hanno ancora fatto la loro scelta, nell’idea che il Classico sia una scuola non solo “difficile”, ma anche poco interessante e aperta al territorio e alle trasformazioni culturali con cui la scuola deve (inevitabilmente) fare i conti. Una scuola, insomma, attraente, nell’immaginario di molti, ma troppo teorica e poco spendibile sul piano delle competenze e delle abilità utili allo sbocco lavorativo. Sappiamo che non è così e che l’insegnamento del Greco e del Latino non è fine a se stesso, ma volano di conoscenza e autoconoscenza: come negare le radici greco-latine della nostra Europa, sia pure sincretizzate dal Cristianesimo che ne ha assimilato ed elaborato elementi, idee, suggestioni? Come negare che conoscere l’antichità greco-latina (e io aggiungo: anche le civiltà del vicino Oriente, dai cui archetipi tutto ha avuto inizio) equivale a guardarsi allo specchio la mattina e ri-conoscersi come espressione di precisi valori improntati all’ individualità e alla collettività?
Ecco che la Notte Nazionale risponde a queste e ad altre domande. Non è mera lettura di classici, ma è riflessione sugli stessi, inteso come ripiegamento sui concetti alla luce della modernità; non semplice esibizione come in un reality qualsiasi, ma “mise en scène” di esperienze il cui baricentro è l’alunno, non oggetto ma soggetto, attore protagonista di un percorso di vita, la sua, che a scuola difficilmente emergerebbe per mancanza di tempo e opportunità. Molti nostri alunni coltivano delle passioni: danza classica e moderna, canto, lettura, teatro. In taluni casi l’attività secondaria rispetto alla scuola diventa primaria, diventa ragione di vita, altrove spazio- temporali utili a scaricare le tossine di una quotidianità che uccide, specie in questi tempi disperati. E di una scuola i cui docenti sono costretti ad adeguarsi continuamente a direttive uguali e contrarie, a ordinanze ministeriali che sembrano tenere in “non cale” la professionalità acquisita, pretendendo una sorta di aggiornamento e autoaggiornamento permanente, tipo rivoluzione troskijsta. La conseguenza la conosciamo tutti: è la mancanza di punti di riferimento e di certezze non solo a livello organizzativo, ma soprattutto didattico. Una magmaticità che abbassa ulteriormente l’autorevolezza del messaggio istituzionale, rendendolo poco credibile perché inaffidabile. Poco l’interesse vero per la scuola; evidente, di contro, il poco o nullo riconoscimento sociale ed economico verso la funzione docente, che paga il degrado culturale che caratterizza non solo l’orizzonte italiano, ma quello occidentale (quando si dicono i nomi parlanti), la marginalizzazione della scuola come ente formativo e culturale a cui si chiede di creare manodopera e non pensiero autonomo, soldatini omologati e ubbidienti al pensiero unico e non intellettuali o, comunque, individui capaci di “leggere” la realtà e di incidere sulla stessa. Eppure, in un contesto desolante come quello sopra descritto, esistono figure professionali che non cedono davanti alla marea montante e che credono con le poche energie rimaste nell’idea di una scuola pensante, nella collaborazione intensa e proficua tra alunni e docenti. Lo fanno in classe con una didattica umana, volta all’osservazione dell’alunno come essere umano prima che come discente, ma anche educativa, perché questo, alla fine, è lo scopo, sempre più difficile da raggiungere, dell’istituzione scolastica.
E’ questo, credo, uno degli elementi più interessanti dell’idea del prof. Schembra del “Gulli e Pennisi”: quella di un lavoro improntato alla collaborazione, allo scambio di idee, al rispetto dell’alunno e delle sue inclinazioni vere, all’ entusiasmo di fare cultura come si fa un manufatto dietro cui c’è un’idea, coltivata e alimentata nel tempo. Ecco che le performance in quest’ ottica acquisiscono un preciso valore: diventano ponti tra passato e presente, occasione di riflessione e di lavoro sulla talora fragile psicologia dei nostri alunni, di miglioramento di abilità, quale quella della scrittura, messa in pericolo dalla pandemia e dai suoi corollari, di abbandono all’ immaginazione.
Annamaria Zizza